Oltre quarant’anni di scuola inclusiva non hanno reso l’Italia un Paese più inclusivo. Questo dato è emerso nei giorni scorsi dal sondaggio nazionale “Inclusione scolastica: un valore irrinunciabile?” fatto dalla Erikson, che ha raccolto le risposte di 3.137 tra insegnanti, educatori, pedagogisti, assistenti sociali, neuropsichiatri infantili, genitori di persone con disabilità ed esperti del settore.

A fare questa dura affermazione è stato il 40% degli intervistati. Non solo. Il 47% ha pensato che nel lavoro quotidiano una vera inclusione non sia fattibile e il 42% che l’attenzione positiva all’inclusione sia calata nel tempo. Dati sui quali non ci si è soffermati abbastanza ma che la Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, istituita dall’Onu nel 1992, mi offre la possibilità di riproporre con l’auspicio di aprire una riflessione seria, senza ipocrisia, sul tema dell’inclusione.

Uso le parole che ha adoperato Dario Ianes, professore ordinario di pedagogia dell’inclusione della Libera Università di Bolzano e co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento, per commentare il sondaggio: “La dimensione valoriale e ideale dell’inclusione è ancora fortissima, ma calandosi nella realtà operativa delle scuole, giorno dopo giorno, si accumulano difficoltà concrete che alimentano uno scetticismo sempre crescente, che arriva a punte di quasi la metà del nostro campione. Campione, tra l’altro, di insegnanti motivato e autoselezionato. La percezione di irrealizzabilità e di utopia sta crescendo, in parallelo con l’indebolimento delle relazioni di collaborazione tra scuola, famiglie e servizi sanitari e sociali”.

Lo dico, per quel che posso vedere e ho visto con gli occhi da maestro, senza peli sulla lingua: la parola inclusione oggi, nella Scuola italiana, è un bel sostantivo per riempirsi la bocca, usato spesso per ingannare le famiglie più fragili. C’è in ogni documento ma non c’è nella realtà.

Al netto delle poche esperienze di valore che si possono registrare, per onestà nei confronti di chi è disabile, va aperto un serio dibattito perché è assurdo lasciare al buon cuore di un docente – non specializzato – la cura e la professionalità che serve nei confronti di un ragazzo autistico o di un bambino psichiatrico.

E’ vergognoso far firmare piani didattici personalizzati scritti in burocratese e in italiano a famiglie indiane, marocchine, afgane, siriane, cinesi senza che venga loro tradotto o spiegato riga per riga. E’ ignobile che un ragazzo con sindrome di Down o con problemi psicologici cambi di anno in anno l’insegnante di sostegno. E via proseguendo.

Scrive Gordon-Gould e Hornby in “Inclusion at the crossroads”: “Lungi dall’essere un modello che altri Paesi potrebbero emulare, il sistema educativo inclusivo italiano è un esempio di come la pratica dell’inclusione possa essere inefficace, se non addirittura controproducente, rispetto al suo scopo essenziale”.

Torno ai dati che ha raccolto Erikson perché parlano da soli. Nessuno mette in dubbio il valore dell’inclusione, nemmeno io: il 96% afferma che l’inclusione sia un valore per ogni alunno, indipendentemente dal suo grado di disabilità; ma i problemi ci sono e per troppo tempo si è messa la sabbia sotto il tappeto. In caso di un disabile grave “quasi un insegnante su quattro crede nell’utilità dell’aula di sostegno per la maggior parte del tempo”. Nel caso di un alunno con disabilità grave quasi una persona su tre è scettica: il 27% del campione crede che l’inclusione non sia la scelta migliore, il 73% invece la ritiene una buona scelta.

Quando si tocca più da vicino l’esperienza concreta di lavoro con alunni/e con disabilità grave, la percentuale di chi non ritiene fattibile una vera inclusione va al 47%, quasi la metà del campione, e soltanto una maggioranza risicata (53%) pensa che invece sia fattibile.

Il campione esaminato si divide a metà su questa affermazione: “Le etichette di natura biomedica o normativa (Bes, Dsa, 104, ecc.) in ambito scolastico sono controproducenti perché portano alla stigmatizzazione”. Il 52% le ritiene controproducenti mentre il 48% non ne vede il pericolo. L’indagine non offre risposte, purtroppo; credo che sia doveroso osare, tentare percorrere qualche strada guardando in faccia questi numeri.

Oggi sotto la parola disabili in Italia ci stanno autistici, down, ragazzi con problemi psicologici, psichiatrici, bambini con ritardi intellettivi, alunni con problemi motori. Di tutto e di più, facendo ben poca differenza se non sulla carta: con un “Pdp” (piano didattico personalizzato) si pensa di risolvere tutto, anzi ci si “protegge” da qualsiasi eventuale ricorso al Tar da parte delle famiglie.

Il progetto di inclusione – a mio parere – è fallito. Piuttosto di un’inclusione fatta così, meglio pensare a scuole dove i ragazzi disabili possano avere accanto dei professionisti. In Germania esistono e si chiamano Forderschulen, scuole di sostegno. Tenere in classe un ragazzo psichiatrico solo per dire facciamo inclusione è un danno per il ragazzo stesso e per gli altri.

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Normalità e disabilità sono categorie mentali: barriere che condizionano il pensiero

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