Oggi 11 gennaio ho ricordato sui social il 28esimo anniversario del brutale assassino di un bambino: Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido – dopo quasi 800 giorni di prigionia – dagli uomini del disonore. Sì, da uomini di Cosa nostra che pomposamente si facevano e si fanno chiamare uomini d’onore. Invero, sono un agglomerato di menti bacate. Partecipai, insieme ai colleghi della Dia, alle indagini sul rapimento.

In questi anni, non c’è mai stata lezione tra i banchi di scuola in cui io non abbia ricordato Giuseppe. Nei miei incontri scolastici, sento la necessità di seminare legalità raccontando il mio vissuto e ricordare i martiri della violenza mafiosa: credo che ognuno di noi dovrebbe tenere accesa la fiammella dei ricordi, per non dimenticare, perché gli uomini che seppelliscono il proprio passato saranno uomini senza futuro. Ed è per questi motivi che sono spinto da oltre un decennio ad andare nelle scuole e parlar di mafia. Io e le scuole: è il mio nuovo spirito di servizio. E sono pago quando le mie semplici parole raggiungono il cuore dei ragazzi, e lo sono ancor di più allorquando i giovani si rendono conto che la mafia e l’illegalità sono un male assoluto da combattere.

Pubblico uno stralcio di una lettera scritta e postata nel sito di una scuola, dopo la mia lezione dell’anno scorso: “I ragazzi, appartenenti a classi quarte e quinte, se lo sono visti arrivare con la disinvoltura di un comune cittadino, ma hanno mantenuto un insolito silenzio per due ore ascoltando la sua storia. La narrazione di una delle stagioni più sanguinose del nostro Paese è stata raccontata con la lucidità di un uomo che l’ha vissuta stando in trincea, senza sensazionalismi né colpi di scena… Alla fine dell’incontro i ragazzi hanno salutato l’ex Ispettore con un affetto sorprendente, annientando ogni formalismo e lasciando trasparire una sincera, schietta ammirazione. Quando gli studenti sono colpiti da una testimonianza viva della verità, quando si intuiscono la coerenza e il rispetto verso lo Stato, immediatamente rispondono e se ne rendono partecipi. La scuola è il luogo in cui questo incontro deve continuare ad esistere e a rafforzarsi”.

E pensare che sono divenuto seminatore di legalità per un puro caso. Accadde che Nadin, studentessa di terza media oggi laureata, mi disse: “La mia professoressa vorrebbe conoscerla”. Nadin, mentre la prof Patrizia Campri della scuola media “Zangheri” di Forlì lumeggiava Falcone e Borsellino, intervenne dicendo: “Io conosco un poliziotto, amico dei miei nonni, che ha lavorato con Falcone e Borsellino”. Avrei potuto dire no, invece accettai. Oggi, riflettendo su quanto narra il mito di Er, mi rendo conto che in effetti ognuno di noi è artefice del proprio destino: un destino che mi fa stare gioiosamente tra i ragazzi. E fu così che iniziai, incontrando migliaia e migliaia di studenti, delle elementari, medie, licei, istituti professionali e universitari. Un continuo tour attraverso lo Stivale e non solo: incontrai anche studenti e cittadini di Nantes (Francia) con 4 dibattiti.

La forza per andare avanti me la danno i ragazzi stessi. Dico sempre ai ragazzi che loro debbono concorrere a costruire un Paese senza condizionamenti mafiosi. Ma gli incontri che creano particolare commozione sono quelli con i ragazzi di quinta elementare, che mi considerano un loro nonno e sono fantastici quando, alzando la mano, mi fanno domande sincere e privi di pregiudizi. Mi regalano i loro disegni, i loro pensierini su Falcone, Borsellino, sulla mafia: ne conservo a centinaia. Il mio impegno non si esaurisce con le sole scuole: partecipo a dibattiti pubblici ma preferisco l’odore dei banchi di scuola.

Conservo tanti ricordi, ne cito due. Una decina d’anni fa feci una lezione ai ragazzi di quinta elementare di Martinsicuro, al termine si tolsero i colletti bianchi e mi chiesero di porre il mio autografo. L’altro è successo paio di anni fa. Dopo aver terminato la lezione ai bambini di quinta, la dirigente scolastica Catia Palli, di Forlì, mi dice: “Pippo, potrebbe incontrare per una sola ora i bambini di seconda?” La guardo basito e dico: “ Ma preside, sono piccolissimi” e lei sorridendo: “Rimarrà stupito, hanno fatto già il percorso di legalità”. Quando li ho visti entrare in palestra mi sono anche commosso. Mi sembrava di vedere le mie nipotine (ne ho cinque). Insomma, mi hanno fatto domande da restare a bocca aperta: in particolare mi è rimasta impressa una bambina di nome Beatrice, che mi ha fatto decine di domande, tutte appropriate. La cosa curiosa è che, dopo diversi mesi dall’incontro, ho fatto pervenire ai genitori di Beatrice il mio libro con dedica alla bambina. Ebbene, non ero a conoscenza che la data della dedica coincidesse con il compleanno di Beatrice. Meravigliosa coincidenza.

A proposito di bambini, chiudo ricordando, oltre Giuseppe Di Matteo, Claudio Domino (11 anni), assassinato il 7 ottobre 1986 a Palermo da un killer. Il loro ricordo dev’essere sempre presente nella memoria collettiva: guai a dimenticarli.

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