Oggi ricorre l’anniversario della morte di Natale Mondo, poliziotto della Mobile palermitana, sezione 5° investigativa di Ninni Cassarà. Natale fu assassinato da killer di Cosa nostra il 14 gennaio 1988 innanzi al negozio di giocattoli della moglie Rosalia. Noi della Sezione eravamo legati da sincera amicizia: tra noi non esistevano segreti. Ogni appartenente alla Sezione portava in dote le pregresse conoscenze giovanili del mondo mafioso: Natale era esperto delle famiglie della sua borgata di nascita, l’Arenella, dove fu ucciso, mentre io di quella di Ciaculli-Villabate. In buona sostanza, ognuno di noi dava un fattivo contributo di conoscenza.

Giova dire che tutta la sezione di Ninni Cassarà era amalgamata e plasmata proprio nel modo in cui lo stesso Ninni voleva che fosse. Eravamo uomini affiatati, con la consapevolezza di essere uccisi in qualsiasi momento. E’ rimasta nella storia una frase detta da Ninni Cassarà a Paolo Borsellino, mentre si trovavano sul luogo dove era stato appena assassinato il commissario di polizia Beppe Montana: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”. Tra noi dell’ufficio e Natale esisteva un rapporto che andava oltre il lavoro. La fiducia reciproca ci consentiva di condurre indagini in armonia, ed era talmente radicata in noi che Natale ci presentò un suo confidente: cosa rarissima tra noi investigatori. Posso dire che in più di una occasione, con Natale e il suo confidente, compimmo osservazioni e appostamenti nelle zone frequentate dai mafiosi, col fine di catturarli.

Natale Mondo, come più volte ho scritto, fu assassinato due volte. La prima volta da una infamante accusa d’essere la talpa che tradì Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia; entrambi uccisi a pochi giorni dalla morte Beppe Montana, il 6 agosto 1985, nell’agguato di via Croce Rossa a Palermo. Natale Mondo, presente nel teatro dell’agguato, si salvò gettandosi sotto la vettura di servizio: rimase illeso. E fu per questo motivo che l’accusarono ingiustamente di essere la talpa al soldo di Cosa nostra (sul “traditore” di Cassarà stendo un velo pietoso). All’epoca dell’agguato di via Croce Rossa, io non facevo più parte della Mobile palermitana: ero stato trasferito da Palermo per motivi di sicurezza. Ma nel 1985, un paio di mesi prima della tragedia di via Croce Rossa, mi recai riservatamente a Palermo, per condurre un’indagine con Cassarà e Montana. E ancor prima di lasciare Palermo accompagnai Cassarà a casa: guidava l’auto proprio Natale.

Quando Natale fu arrestato chiesi al mio ex ufficio di contattare il sostituto procuratore di Palermo, Domenico Signorino (suicidatosi anni dopo, allorquando il pentito Gaspare Mutolo l’aveva accusato di essere colluso con Cosa nostra), per rendere testimonianza. Il mio intendimento era dimostrare con dati di fatto, e anche sulla scorta di confidenze che Natale mi aveva fatto, che le accuse erano assolutamente infondate. Non fui mai convocato dalla Procura di Palermo. Natale si trovava agli arresti domiciliari e io andai a trovarlo a casa sua per rincuorarlo e dimostrargli tutta mia la mia affettuosa amicizia, stima e fiducia; quel giorno Natale pianse moltissimo. L’accusa di essere la talpa aveva trafitto il suo cuore, oltre a ridurlo in uno stato di prostrazione profonda: era un uomo distrutto. Del Natale che avevo conosciuto, sorridente, allegro e spensierato, non trovai traccia.

L’amicizia fraterna tra Cassarà e Natale era nota a tutti noi: entrambi erano stati in servizio alla Mobile di Trapani e quando Cassarà fu trasferito a Palermo, Natale lo raggiunse. Natale, un uomo che sprigionava empatia a carattere industriale: buono, onesto, sincero; affrontava i pericoli con disarmante semplicità.

La seconda volta, come ho detto, Natale fu assassinato da Cosa nostra; egli fu il quinto della nostra Sezione ad essere ucciso: prima di lui cadde Lillo Zucchetto (1982, io ero il suo capo pattuglia), poi Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia. Omicidi compiuti nella totale indifferenza di uno Stato imbelle. Uomini – colleghi – che morirono per liberare il nostro Paese da condizionamenti mafiosi. Oggi mi sento di dire che il loro e il nostro fu un sogno utopico; tra i sognatori ci metto pure Chinnici, Falcone, Borsellino, altri magistrati, carabinieri e poliziotti. E quando ci dicevano: “ma cu vu fa fari?” (ma chi ve lo fa fare?), avevano maledettamente ragione e noi, noncuranti, andavamo dritti per la nostra strada. La strada della giustizia.

Articolo Precedente

Ventott’anni senza il piccolo Giuseppe Di Matteo: ecco perché semino legalità nelle scuole

next
Articolo Successivo

Messina Denaro e l’ironia sui suoi identikit: “Qui sembra che ho 85 anni”. I diari segreti per la figlia: “Vorrei che ti ricordassi di me”

next