Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia“, parola del boss Matteo Messina Denaro. Preso dopo una latitanza di 30 anni, lo scorso 16 gennaio, meno di un mese dopo il suo arresto, queste sono le sue parole durante un interrogatorio di fronte ai magistrati di Palermo, oggi reso pubblico, perché inserito nella documentazione con cui la procura ha chiesto la chiusura delle indagini per il medico Alfonso Tumbarello, accusato di avere favorito la sua latitanza. Una lunga latitanza in cui ha rinunciato alla tecnologia finché ha potuto, ma poi ha dovuto cedere, facendosi “albero nella foresta”, ovvero mimetizzandosi come persona tra le persone, in quel di Campobello di Mazara, dove ha preso il nome di Francesco e con quel nome lo conoscevano tutti, “femmine, maschi, bambini”, mentre a Palermo era Andrea. Dopo la malattia – per cui oggi è stato nuovamente ricoverato in ospedale – si è dunque esposto al pericolo di essere arrestato e così è stato: “Era giusto che io andassi in carcere, se mi prendevate. E ci siamo arrivati. Ma una domanda così, che lascia il tempo che trova: ma cosa è cambiato secondo lei? C’è una corruzione fuori, c’è una corruzione fuori indecente… si sono concentrati sempre tutti su di me e quello che c’è fuori forse voi pensate di immaginarlo tutto ma non lo sapete tutto”. Interrogato dal procuratore capo Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido, Messina Denaro non si pente: Ma se le non ci aiuta… lei ci dica…”, lo incalza il procuratore capo, Maurizio De Lucia. Ma il boss svicola: “Eh, eh, eh, lo sapevo… Però io non so se è chiara sta cosa: se tutti quelli che hanno avuto da fare con me, dovete fare qualche carcere nuovo, perché mezzo Campobello se ne va in carcere. Però sanno che sono “Francesco”, maschi e femmine pure, pure i bambini, sempre “Francesco” sono stato io, perché non avevo altri modi di difendermi”. A questo punto interviene il procuratore aggiunto, Paolo Guido: ”Quindi, dico, noi conveniamo anche con la sua necessità, come dire, di evitare che attraverso la sua… che l’ha aiutata in qualche modo possa avere delle ripercussioni, però c’è una storia di 30 anni che andrebbe ricostruita, insomma a noi interessa questo”. “Io non so”, risponde il boss. Non sa, nessun pentimento, però durante tutto l’interrogatorio prova a scagionare e scagionarsi, da accuse, attribuzioni, perfino dalle imprecazioni sulla strage di Capaci, ascoltate in un vocale, dopo il suo arresto. Mentre esprime giudizi sul “concorso esterno”, secondo il boss reato “farlocco”. Un giudizio espresso dal boss pochi mesi prima che le dichiarazioni del Guardasigilli, Carlo Nordio, lo ponessero al centro del dibattito politico. Un interrogatorio durato un’ora e 44 minuti, nel quale, in primis, U Siccu prova a difendersi dall’accusa dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, che fu sequestrato all’età di 12 anni e dopo 3 anni di sequestro fu sciolto nell’acido.

“Cioè ma ingiustizie quante ne devo subire?” – Un’ingiustizia tra le tante che Messina Denaro – a cui recentemente è stato confermato l’ergastolo a a Caltanissetta per le stragi di Capaci e via D’Amelio – sente di subire, anche se non vuole “fare vittimismo”, come chiarirà, è quella di essere ritenuto responsabile dell’omicidio del piccolo Di Matteo. Per questo parla a lungo con i magistrati, cominciando da quello che ha detto Giovanni Brusca: “Allora, io di questo che dirò, mi debbo mettere sulla scia di quello che dice Giovanni Brusca”, così Messina Denaro introduce l’argomento del piccolo Di Matteo. E prosegue: “Perché se io dico “non so niente”, si chiude il discorso, ma se io mi devo cercare di difendere, mi devo mettere sulla scia di quello che ha detto Brusca, Cioè Giovanni Brusca dice una cosa e io mi devo difendere. Allora, ad un tratto Giovanni Brusca mi accusa che io ho sciolto nell’acido il bambino e questa è una cosa… mi ascolti, io non sono un santo…”. De Lucia, lo ferma e chiede di chiarire: “Parliamo del piccolo Di Matteo?” “Ovvio”, risponde il boss, che spiega: “Ascolti, io non sono un santo… Allora lui dice che ad un tratto, in un paese, non so dove, ci incontriamo: lui, Giuseppe Graviano – un Graviano, non tutti e due – Bagarella ed io e dice “Là si decide di sequestrare questo bambino, per fare ritrattare il padre”, ci siamo fino a là? Allora che succede? Che… quello che dirò ora non è importante per lei e va bene così, io dico: ma che c’entro io con le cose di San Giuseppe Jato e di Altofonte, che sono a fianco? Io di Trapani sono, ma facciamola passare. Le mi insegna che un sequestro di persona ha una sua finalità, che esclude sempre l’uccisione dell’ostaggio, perché un sequestro a cosa serve? Ad uno scambio: tu mi dai questo ed io do l’ostaggio; ma prendi anche un ostaggio ora, anche nei sequestri per soldi, se lei non ha la prova dell’essere in vita della persona, non è che mi dà soldi, quindi il sequestro non è mai finalizzato all’uccisione, io credo, di quello che capisco della vita. Sequestrano questo bambino – quindi io sono come mandante, mandante del sequestro – sequestrano questo bambino, lui non dice che c’ero io; ci sono altri pentiti, non lo dicono nemmeno. Ad un tratto arrestano prima a Graviano e poi al Bagarella, quindi di questo discorso che dice lui, di quattro diventiamo due. Vero è che lui dice che aveva due covi nella provincia di Trapani, giusto? Quindi addossandola a me, due covi, ma due covi per sequestro, non per ammazzare a qualcuno. Ad un tratto lui resta solo in tutta questa situazione, passa del tempo, un anno/due anni, dice- lui dice – si trova davanti la televisione ed il telegiornale dà la notizia… che lui era stato condannato all’ergastolo per l’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo, ci siamo?”.

A questo punto il boss di Castelvetrano entra nei drammatici momenti in cui fu impartito l’ordine di sciogliere il ragazzino nell’acido: “Impazzisce, prende il telefono e telefona a suo fratello. Suo fratello era in un bunker della casa in campagna, dove poi effettivamente fu ucciso il bambino e ci dice, in siciliano: “Alliberati du cagnuleddu”, lui lo dice, non è che lo dico io. Quindi già lui… dà ordine di uccidere questo ragazzino, bambino. Lui poi si fa… si parte, va nel covo di San Giuseppe, scende laggiù e c’era suo fratello ed altri tre affiliati a loro; dei tre, io mi ricordo il cognome di uno, un certo Chiodo, gli altri due non penso, però sono tutti e cinque pentiti. Che dicono tutti e cinque? Che il bambino lo ha ucciso Vincenzo Brusca; quando arrivò lui, lo hanno sciolto nell’acido. Punto. Alla fine andò a finire che ‘sto bambino l’ho ammazzato io, dovunque c’è un inferno per “stu bambino e nessuno, dico, si prende… anche per un fatto di onestà, dice… Decise tutto lui, per l’ira dell’ergastolo che prese. Ed io mi sento appioppare un omicidio, invece, secondo me mi devono appioppare il sequestro di persana; non lo faccio per una questione di 30 anni o ergastolo, per una questione di principio. E poi a tutti… cioè loro lo hanno ammazzato, lo hanno sciolto nell’acido ed alla fine quello a pagare sono io?”.

Una lunga spiegazione che precede lo sfogo: “Cioè, ma ingiustizie quante ne devo subire? Ma non è che voglio die che voglio fare la vittima, non ne voglio fare vittimismo, nono sono uomo di questo, però diamo a Cesare quel che è di Cesare. Tutto contro di me, ma perché?”. Mi ascolti, mi possono mettere in croce nella vita, mi sta pure bene, non ho niente da recriminare a nessuno, ma io il bambino non l’ho ucciso e mi dà fastidio ‘sta situazione. Non è… lo so che lei non me lo può togliere, perché… però voi avete le mani in pasta, potete arrivare voi, con la vostra intelligenza e con logicità, se è vero quello che dico io, che non ho ucciso questo bambino. Sono loro che lo dicono, perché sono cinque, tre…”. De Lucia lo interrompe: “Sì, l’ho capito, però… ci sono un sacco di condizionali ed un sacco di congiuntivi in tutte le storie che lei ci ha fatto… e noi tutti questi condizionali e questi congiuntivi li studieremo. Però a noi piace di più l’indicativo, i fatti, va bene?”. Ed è accorato la risposta: “Mi ascolti, procuratore, mi ascolti, non ho più niente da perdere nella vita, anche perché sto perdendo la vita stessa, però voglio che… desidero che mi rimangano i miei principi, giusti o sbagliati che siano”.

La difesa di un paese intero – “Allora, se voi dovete arrestare tutte le persone, eh, eh – scusi se rido, ma è diventata poi una barzelletta – che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone, di questo si tratta”, così Messina Denaro racconta gli ultimi anni della sia latitanza a Campobello di Mazara, il paese dove è stato trovato il covo nel quale viveva, a pochi km dalla sua Castelvetrano. Negli ultimi anni, cioè da quando aveva cominciato a farsi “albero tra gli alberi”, aveva due nomi diversi e due identità: “Però c’è una differenza: a Palermo io non “Andrea”, perché a Palermo ho conosciuto decine e decine di persone, sono “Andrea”, mentre siamo assieme, che facciamo le infusioni; a Campobello no, perché io a Campobello posso essere Andrea Bonafede che lo conoscono tutti? Allora mi sono creato un’altra identità: “Francesco”, giusto? Che abita a Palermo, ma che ha una mamma e due zie anziane, malate e ci sono badanti, sorelle, in modo… che avevo una casa qua. E mi gestivo così: io giocavo a poker, mangiavo – quello di Campobello – mangiavo al ristorante, andavo a giocare… ovviamente, quando ho fatto l’applicazione nel telefono della Bet, per giocare le partite, ci potevo andare io? Non ha senso, ci sono andato e ci dissi: “Andrè, fammi ‘sti… quantomeno il sabato e la domenica mi passo il tempo pure con le partite, giocando”. E ci sono andato con lui, lui che ha detto? Ha dato il suo nome, però nel telefono che avevo io, che il telefono che avevo io era intestato a sua madre però, giusto? Una persona di 90 e rotti anni. Quindi la donna ed il marito, che erano i proprietari, chi gestiva questo Bet, problemi non se ne posero, perché abbiamo detto che eravamo cugini, io venivo da fuori, senza fare nomi e siamo diventati… io sono diventato amico di mezzo paese… Non c’erano negozi che non mi conoscevano: panettieri, fruttivendoli, supermercati… supermercato, sempre al supermercato andavo, perché… però sapevo che arrivavo a sbattere, lo capivo; non è che mi sento super intelligente, non lo sono, però qualcosa della mia vita ormai… nella latitanza mi sapevo gestire, sapevo che non era per sempre questa situazione, però sapevo pure, “Speriamo che muoio prima, così la chiudiamo qua”, ecco qual è stata la mia… tanto io non è che ho speranze, sempre morto sono, perché non sono più operabile, penso… loro dicono massimo ancora due anni, però non ci arrivo a due, perché mi sento male, lo capisco. Cos’è che voleva sapere lei?”.

Il “concorso esterno” per il boss è “farlocco” – “Ora vorrei fare un altro… salto di nuovo sull’Andrea Bonafede, perché ho sentito alla televisione, non so se è vero, che è stato arrestato, nono solo per favoreggiamento, ma anche per associazione mafiosa, perché è stato tipo riconosciuto come uno riservato, okay? Così è? Lui questa accusa…”. Il pensiero del boss va a chi gli ha fornito un’identità per potersi curare e che non può adesso essere accusato di associazione mafiosa, perché lo ha favorito, certo, ma non ha svuotato il covo e questo è prova che non fosse un affiliato, perché non pensava da mafioso. Così cercando di alleggerire l’amico, lancia una stoccata al concorso esterno reato su cui recentemente c’è stato un acceso dibattito per la pretese del ministro della Giustizia Carlo Nordio di azzerare: “L’hanno arrestato (Andrea Bonafede, ndr) per favoreggiamento e perché è mafioso riservato… Il mafioso “riservato” è tipo un altro argomento di legge, se vogliamo dire, farlocco, come “concorso esterno”, io preferire, se fosse una mia decisione: tu favorisci… il favoreggiamento prende da 4 a 5 anni, se favorisci un mafioso sono 12 anni; meglio così: si leva il farlocco di torno. Ora le vorrei dire: se questo ragazzo – “Ragazzo”, la mia età – fosse stato mafioso, lasciamo stare, riservato o non riservato…”, è questo il tentativo di Messina Denaro di difendere Andrea Bonafede, il geometra che gli ha “prestato” l’identità per potere essere inserito nel sistema sanitario nazionale e godere delle cure dello Stato. È in questo frangente che il boss sostiene di “non essere mafioso” ma di conoscere bene la mentalità mafiosa. E una prova della non appartenenza alla mafia di Andrea Bonafede è il fatto che quando le forze dell’ordine e i magistrati sono entrati nel suo covo, hanno trovato qualcosa, non come nel caso della cattura di Totò Riina, quando il covo fu trovato vuoto e questo perché Andrea Bonafede non saprebbe che in questi casi, saputa la notizia dell’arresto si va nel covo e lo si ripulisce: “perché nel suo sistema di vita non c’è il sistema di vita associativo, perché se io non mi posso muovere, si muove lui, si muove l’altro, siamo tutti così, per esempio. Lui invece dice: “Il mio compito qual era? Casa, documenti per ospedale e macchina. L’ho assolto, per me…”. Allora, se voi sareste arrivati in quella casa dopo 15 anni, avreste trovato le stesse cose, ci siamo? Perché lui non sarebbe mai andato a prenderle…”.

Non voleva insultare il giudice Falcone ma le commemorazioni – Un altro punto sul quale si sofferma l’ex latitante è il vocale mandato in onda nella trasmissione di Massimo Gilettiin cui il boss insultava Giovanni Falcone. “Sono bloccato nel traffico per le commemorazioni di ‘sta minchia”. “Mi ascolti, per prima cosa voglio chiarire il fatto dell’autostrada…”, dice Messina Denaro rivolgendosi al procuratore. Che chiede chiarimenti: Qual è il fatto dell’autostrada?”. E lui chiarisce: “Quello della commemorazione” – “Sì, quella frase che è stata detta in una chat, okay”, sottolinea De Lucia. – “Un vocale”, chiarisce il boss: “il 23 maggio. Ad un tratto si blocca tutto, ma in genere… nemmeno io l’ho capito all’inizio, si blocca tutto e si forma una coda, infatti io era a Terrasini quando ero fermo e là si cominciarono a muovere; sto fermo 35 minuti, c’era una coda chilometrica. Poi si capì, perché tutti telefonavano, perché c’erano le persone pure scese – là non si vede perché già camminavano piano – e tutti…. Successe un inferno, perché nessuno…. Credo un’arteria, voi lo sapete, bloccata così indecentemente… allora io ho fatto quel discorso, però è stato trasmesso come se io offendevo al giudice Falcone. A prescindere che ognuno a casa sua… la macchina è casa mia, posso fare quello che voglio, poi se è un reato, voi… volevano trasmettere il messaggio che io avevo offeso Falcone; poi prima di sera, la toglievano e c’era solo “intercalare volgare”. Io non è che volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… guardi, io non sono credente, non ateo, sono agnostico, ma non bestemmio, la mia bestemmia è porco mondo. Il punto qual è?… Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora, se invece del giudice Falcone, fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: così vi fate odiare dalla gente”. De Lucia lo interrompe: “Certo, se magari la gente non faceva saltare un’autostrada 30 anni prima, non stavamo lì a discutere di queste cose…”.”Da noi lo sa come si dice, in siciliano – Lei siciliano è? – Lo sa come si dice in siilino?” risponde Messina Denaro. E continua: “C’è un detto, proverbio antico…: “Se la cascia un carrìa e mettia sutta la iaddina, la iaddina di fame avissim murutu?”, “È caduta la cassetta e s’accoppò sulla gallina e morse di fame e di sete”. “Vabé, comunque c’ha chiarito questa cosa, non ce n’era bisogno, perché nessuno la giudica per quello che lei ha detto in quella conversazione”, lo redarguisce De Lucia. Lui insiste: “ No, no, ma che non offendevo, non offendevo a nessuno”. “E l’abbiamo chiarito, l’ha chiarito, lo voleva chiarire e l’abbiamo ascoltata”, lo ferma il procuratore. E lui risponde: “Dottore De Lucia, io non mi farò pentito”.

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