Poche settimane fa, durante un festival di teatro comico a Taormina, si è discusso di comicità femminile. Non vorrei sembrare provocatorio, ma siamo sicuri che esista? Ovviamente esistono, e anzi oggi sono molto numerose, attrici e performer donne che fanno comicità, umorismo, satira e quant’altro. Tuttavia sarei in difficoltà a definire su due piedi una comicità “al femminile”. Non mi sto riferendo ai contenuti. È evidente che esistono temi e soggetti tipicamente femminili. Basti pensare alle tematiche femministe, per esempio. Ma per definire una specificità artistica occorre guardare al linguaggio, alle modalità espressive. Ecco: quali sono le specificità linguistiche, espressive, drammaturgiche della comicità femminile?

Prima di tentare una qualche risposta a questa domanda (in un prossimo contributo), da storico quale sono vorrei interrogarmi sull’esclusione dal comico che ha riguardato la donna per secoli, anzi a ben vedere per millenni, nella nostra civiltà occidentale (ma anche nelle altre, a occhio, non è andata meglio, anzi).

Se oggi esistono tante brave comiche in Italia è perché, verso la metà del secolo scorso, alcune attrici hanno sfondato il “muro di cristallo” di una comicità tutta maschile. Mi riferisco principalmente a Franca Valeri e Franca Rame. Grazie a loro che hanno aperto la strada, finalmente le donne hanno cominciato a praticare la comicità al pari, o quasi, degli uomini, in teatro, al cinema e poi soprattutto in televisione. Con tempi diversi, in certi casi anticipati di qualche decennio rispetto all’Italia, la stessa cosa è avvenuta un po’ in tutto il mondo occidentale. Finiva così un’esclusione durata oltre due millenni.

L’ipotesi che faccio in proposito, senza girarci troppo intorno, è la seguente: è l’avvento del patriarcato (in queste settimane sotto accusa per fatti ben più gravi) che produce questa esclusione della donna dalla dimensione del comico, la quale diventa appannaggio esclusivo degli uomini, e tale resterà per tanto, tanto tempo.

Volete una controprova? Nelle antiche civiltà mediterranee e medio-orientali, che erano matriarcali, questo non accadeva. Anzi, se rivisitiamo alcune mitologie fondatrici scopriamo esattamente l’opposto. In queste mitologie il comico, sempre unito all’osceno, riveste un ruolo fondamentale, cosmogonico, suscitatore di vita. E non tanto sorprendentemente, esso appartiene alla donna, in quanto generatrice, e in particolare alla sua vagina, cioè all’organo generatore, la cui “scandalosa” esibizione produce una propizia, benaugurante ilarità. Si pensi alle leggende riguardanti la dea Demetra e Baubo, un demone inferico chiamato anche “figlia della terra”.

Anche nella Grecia classica, in cui domina ormai il patriarcato, i rituali di fecondità, connessi al ciclo stagionale e alla rinascita primaverile, sono legati al comico e all’osceno, però maschile questa volta. Non vagine ma falli vengono portati in processione. Enormi falli posticci innalzati a scopo propiziatorio durante quelle sfilate che si chiamavano appunto falloforie e che sono forse all’origine della commedia attica. Tant’è che ne rimangono tracce evidenti nel protocommediografo, Aristofane, e nelle cosiddette farse fliaciche, che si diffusero fra V e III secolo nella Magna Grecia e sono ampiamente attestate dalla pittura vascolare.

Da questo momento la comicità, con l’osceno che ne è da sempre una componente costitutiva, diventa un affare esclusivo del maschio. E tale resterà sostanzialmente fino a tutto l’Ottocento. In questo lunghissimo periodo, la donna, salvo pochissime eccezioni, non ha avuto la possibilità di essere soggetto produttore di comicità ma, al massimo, è stata bersaglio comico, oltre che, soprattutto, “oggetto del desiderio”.

[In foto un frame della serie Prime video “La fantastica signora Maisel”]

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