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Lidia Macchi, 37 anni fa il barbaro omicidio della studentessa nei boschi del varesotto: un’indagine sbagliata e un innocente condannato

L’omicidio di Lidia Macchi presenta inquietanti similitudini con un altro omicidio irrisolto: il delitto della Cattolica

di Alessandra De Vita

L’elenco degli omicidi irrisolti in Italia è lungo. Delitti senza un colpevole, addirittura senza nemmeno una pista o peggio, con innocenti che pagano condanne per un crimine che non hanno commesso. Per ognuna di queste storie c’è una famiglia che vive nell’angoscia perenne di non conoscere il destino di un proprio caro e tra queste c’è quella di Lidia Macchi: studentessa strappata alla vita esattamente 37 anni fa, il 5 gennaio del 1987. Quello di Lidia è un cold case diverso dagli altri: lontano dalle pagine di cronaca, con alle spalle solo un’indagine sbagliata e un innocente condannato. Lidia era una ragazza tutta casa, famiglia e libri. Una “Albachiara”, per dirla con il nome di una popolare canzone di quegli anni. Studentessa diligente, frequentazioni cattoliche. Aveva 21 anni quando scomparve e frequentava il secondo anno di Giurisprudenza all’Università del Sacro Cuore di Milano.

Oggi avrebbe 58 anni ma la sua età è rimasta per sempre congelata in quella fredda notte di gennaio in cui fu massacrata con 29 coltellate in un boschetto a due passi da Varese, nella Panda del papà che le era concessa per muoversi. Lidia era iscritta agli scout, faceva la volontaria e bazzicava gli ambienti ciellini (Comunione e Liberazione, nda) lombardi. Fu ritrovata il 7 gennaio, due giorni dopo la scomparsa, nei boschi di Cittiglio, allora frequentati da tossicodipendenti. Nel pomeriggio di quella domenica per lei maledetta era andata a far visita a un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio. Non è ancora chiaro come, invece di rientrare a casa, sia finita in quel boschetto dove ha incontrato la signora con la falce. Ciò che è certo è che Lidia è stata violentata prima di venire ammazzata. L’esame autoptico confermò che subì il suo primo rapporto sessuale prima di morire.

Negli inquirenti si insinuò all’epoca la convinzione che la modalità efferata e le troppe coltellate inferte furono sferrate in un delirio scatenato dall’idea di punire la ragazza per aver perduto la propria castità, sebbene contro la propria volontà. Le prime indagini si concentrarono sugli ambienti cattolici alto lombardi, messi al setaccio dagli inquirenti che interrogarono seminaristi e sacerdoti, tra cui alcuni con alibi complicati da verificare: il giorno in cui fu uccisa Lidia un gruppo numeroso di loro era andato in montagna per una scampagnata ma non c’era un elenco con le presenze e le testimonianze dei presenti che viaggiarono insieme sul bus risultarono contraddittorie. Un 19enne varesino, Stefano Binda che conosceva Lidia soltanto superficialmente, venne sentito come testimone sull’alibi di un seminarista. Ecco il primo nome da appuntare di questa tragedia inquietante. Nel giorno del suo funerale, a casa di Lidia arrivò una lettera anonima, infilata nella buchetta mentre erano tutti in chiesa. Una lettera che evocava lo stile delle terzine dantesche e dei poeti maledetti, intitolata ‘In morte di un’amica’. Tra deliri e citazioni religiose emersero dei riferimenti precisi al modo in cui fu ammazzata Lidia, ancora non rivelati dagli inquirenti e dalla stampa: fu chiaro che il mittente fosse coinvolto nel delitto.

Le indagini si diressero allora sull’autore, capire chi fosse avrebbe svelato anche l’identità dell’omicida, secondo i legali. Si indagò su un sacerdote 38enne, Don Antonio Costabile, molto vicino alla vittima, i due erano amici. Fu scagionato dopo anni perché estraneo al crimine. Nel 2015 è arrivato il primo colpo di scena: una testimone, guardando un programma in tivù, riconobbe nella calligrafia della lettera ‘In morte di un’amica’ quella di un ex compagno di scuola, l’ormai 47enne Stefano Binda. Binda non era mai stato indagato fino ad allora se non come teste. Il suo è un vissuto difficile, da ex tossicodipendente. Non ha un alibi per quella notte e questo è bastato a incastrarlo. Nel suo appartamento vennero ritrovati taccuini con frasi che evocavano quella lettera: ha sempre amato la poesia, è un ragazzo colto.

Da qui l’accusa che lo ha trascinato prima in carcere e poi alla sbarra dove l’anno successivo ha ricevuto come condanna, l’ergastolo. Dietro alle sbarre c’è rimasto per quasi quattro anni, fino all’assoluzione in Appello e poi la caduta definitiva delle accuse in Cassazione per mancanza di prove a suo carico. A scagionarlo definitivamente fu il corpo Lidia, riesumato nel 2017: i quattro peli ritrovati sul pube non appartenevano a Binda, così come non c’era corrispondenza tra i resti dei reperti e il Dna dell’uomo. Intanto è venuto allo scoperto il vero autore di “In morte di un’amica”, risultato estraneo al barbaro omicidio così come alla ragazza: compose quei versi semplicemente in omaggio alla ragazza, ha detto.

L’omicidio di Lidia Macchi presenta inquietanti similitudini con un altro omicidio irrisolto: il delitto della Cattolica, quello di Simonetta Ferrero, barbaramente assassinata con 46 coltellate nei bagni dell’Università meneghina il 26 luglio 1971. Non solo le vittime erano entrambe brave ragazze di buona famiglia che frequentavano ambienti cattolici ma messaggi anonimi inviati alla Questura di Milano hanno indicato lo stesso assassino per entrambe, suggerendo di indagare su sacerdoti e seminaristi. Due storie, come tante, troppe, cristallizzate nel tempo.

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