Il 2023 sta per chiudersi con la speranza di un cambiamento significativo nell’attenzione al fenomeno della violenza contro le donne. Il femminicidio di Giulia Cecchettin, commesso l’11 novembre scorso, da Filippo Turetta, ha scosso il Paese come mai era accaduto prima, portando 500mila persone, donne e uomini, alla manifestazione che si è tenuta a Roma per la giornata internazionale contro la violenza alle donne.

Durante i funerali della figlia Giulia, il 5 dicembre, Gino Cecchettin ha esortato gli uomini ad assumersi la responsabilità di un cambiamento positivo nelle relazioni con le donne. Qualche giorno prima, davanti al cancello di casa, Elena, la sorella di Giulia, aveva denunciato le radici patriarcali della violenza maschile. Per la prima volta, i famigliari di una vittima di femminicidio hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica un crimine che ha matrici culturali: per questo, sono stati attaccati con acredine da alcuni politici e da alcuni giornalisti, a dimostrazione che non è scontato denunciare, restando impuniti, un crimine contro le donne, raccontandolo come parte di fenomeno che riguarda l’intera società e non solo un singolo caso.

Per giorni, come non era mai accaduto prima, in molti programmi televisivi , sulle testate dei giornali, sui social, si è parlato di patriarcato, spesso per negarne l’esistenza o per dire che era morto e sepolto. Ma il patriarcato è davvero morto?

Nel 1996 nel documento titolato È accaduto per caso prodotto dalla libreria delle donne di Milano, si annunciò: “Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito”; nel 2022 Ida Dominijanni nell’articolo “Patriarcato: il passato che non può tornare”, commentava quel documento di 27 anni prima con questa riflessione: “Le autrici di quel testo non erano né pazze, né ingenue… non per questo c’era da illudersi che per le donne la strada sarebbe stata in discesa. Al contrario ‘la fine del patriarcato non è e non sarà una cosa da ridere’ perché porta con sé due pericoli. Primo, che insieme con il patriarcato crollino le strutture della vita associata che ad esso sono strettamente connesse; secondo, che la virilità possa reagire in modo violento alla perdita del controllo sul corpo femminile. Entrambi questi pericoli si sono realizzati”.

Quella reazione violenta la leggiamo nei femminicidi che si susseguono ogni 3/4 giorni e che viene commessa anche da giovanissimi a dispetto della convinzione che le relazioni tra uomini e donne si sarebbero modificate velocemente. Non è stato così. I pregiudizi persistono granitici. Secondo i risultati di una ricerca condotta dal CNR – Irpps condotta nel 2019, su 3mila ragazzi nelle scuole superiori, è emerso che 4 ragazzi su 10 è ancora convinto che siano gli uomini a dover occuparsi del sostegno economico della famiglia; 1 su 4 è convinto che sia un uomo a dover comandare in casa e 1 su 5 che il tradimento di una donna sia più grave di quello di un uomo. Persistono anche sessismo ed omofobia tollerate soprattutto da maschi (13,4% dei maschi contro il 5,4% delle femmine).

Molte ragazze si trovano a vivere relazioni fatte di controllo e violenza e il femminicidio, come accaduto a Giulia Cecchettin, accade a molte ragazze.

Dopo la sua uccisione, le richieste di aiuto ai centri antiviolenza si sono impennate. Al 1522 sono state registrate 400 telefonate al giorno rispetto alla media delle 200 giornaliere, soprattutto da parte di giovanissime. Nel Centro Veneto Progetti Donna di Padova le donne che hanno chiesto aiuto sono quintuplicate tra la metà e la fine di novembre per poi calare lentamente ma rimanendo il doppio di quelle solitamente accolte. Numeri alti di richieste di aiuto si sono registrati particolarmente nei Centri antiviolenza del Veneto ma complessivamente in quasi tutti i centri antiviolenza della rete DiRe si è registrato un aumento di richieste di aiuto, anche di interventi in emergenza che riguardano le donne che devono allontanarsi da casa nell’immediatezza perché in pericolo.

Si è trattato di un evento che ha confermato ciò che Istat ha rilevato da tempo: esiste un fenomeno ancora sommerso della violenza nelle relazioni di intimità, e questo viene a galla quando la consapevolezza squarcia la cappa della rimozione della violenza. Sarebbe improprio quindi parlare di emergenza, si tratta di una emersione del fenomeno.

Solo il 4% delle vittime di violenza sono accolte nei centri antiviolenza – e il dato è destinato ad aumentare – ma è fondamentale che vengano date risorse adeguate perché ci siano risposte adeguate. Il rischio è che il governo non attui politiche strutturali per un cambiamento sociale e culturale profondo che abbatta le asimmetrie e porti all’empowerment delle donne e scelga, invece, la via più facile e demagogica della risposta securitaria, del finanziamento dei centri antiviolenza una tantum, e nello stesso tempo fare propaganda della “famiglia tradizionale”. Se in una parte della società italiana sta maturando una nuova consapevolezza, questa non si manifesta nell’attuale governo che insegue, con proclami e iniziative prive di spessore, le reazioni indignate alla notizia dell’ennesimo casi di violenza contro una donna.

Lo dimostra il piano “Educare alle relazioni”, varato da Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione, per realizzare interventi educativi nelle scuole superiori che sono tarati più sul tema dell’educazione civica che sul contrasto a stereotipi e pregiudizi mentre è fondamentale sollecitare nelle nuove generazioni, uno sguardo critico sulla costruzione culturale della mascolinità e della femminilità per smascherarne i rapporti di dominio e di subalternità che li attraversano.

@nadiesdaa

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