“Riaffermiamo il nostro sostegno alla dottoressa Gay”. L’università di Harvard “salva” la sua presidente, Claudine Gay, la prima afro-americana a guidare una dei più prestigiosi atenei al mondo.. Il board dell’università statunitense, all’unanimità, ha deciso che Gay non deve essere allontanata, dopo le controverse dichiarazioni della settimana scorsa davanti a una Commissione della Camera. I consiglieri d’amministrazione di Harvard non sollevano comunque Gay dalle sue responsabilità. La presidente e tutta l’Università, afferma il board, avrebbero dovuto esprimere “una condanna immediata, diretta e inequivocabile” per l’attacco di Hamas. Quella condanna non c’è stata e ora, a Claudine Gay, tocca il compito più difficile. Riconquistare la fiducia di molti studenti e docenti. Ricomporre le fratture profonde che la guerra a Gaza ha scavato anche a Harvard.

Gay non ha quindi fatto la fine di Elizabeth Magill, la presidente della University of Pennsylvania, che ha dovuto rassegnare le sue dimissioni proprio a seguito dell’audizione alla Camera (insieme a Gay e Magill, c’era anche Sally Kornbluth del Mit di Boston). Magill si trovava del resto in una posizione di particolare debolezza. A settembre, nonostante le pressioni di diversi finanziatori dell’università, non aveva cancellato un evento dedicato alla letteratura palestinese. La strage di Hamas il 7 ottobre, l’iniziale, quanto meno in apparenza, mancanza di una condanna ferma da parte di Penn, avevano scatenato il furore di alcuni tra i più facoltosi finanziatori (tra questi, Marc Rowan, a capo del fondo Apollo Global Management), mettendo a serio rischio il posto di Magill. L’audizione alla Camera è stata il colpo finale per la presidente della University of Pennsylvania. Sentirla affermare che invocare il genocidio degli ebrei è harrassment, aggressione, ma “dipende comunque dal contesto”, ha reso insostenibile la sua posizione, costringendola alle dimissioni.

La posizione di Claudine Gay è parsa, sin dall’inizio, diversa. È vero che anche Gay ha mostrato più di un’esitazione di fronte alle domande, simili a una vera e propria requisitoria, che le sono state poste dalla deputata repubblicana Elise Stefanik. Anche Gay, interrogata da Stefanik sulla questione “invocare il genocidio degli ebrei viola il codice di condotta di Harvard?”, ha dato la stessa risposta evasiva: “Dipende dal contesto”. Ma Gay era arrivata a Washington da Harvard con trascorsi meno tempestosi di Magill. La sera di Shabbat, il 27 ottobre, aveva annunciato la formazione di un gruppo per “sviluppare una robusta strategia per combattere l’antisemitismo nel campus”. E Gay, già nelle prime settimane di guerra, aveva condannato lo slogan “from the river to the sea”, dal fiume al mare, che molti vedono come un’affermazione di nazionalismo palestinese e di distruzione dello Stato ebraico.

A favore di Gay ha poi sicuramente giocato l’appoggio offerto dalla comunità afro-americana. “Si tratta di attacchi pretestuosi e politicamente motivati”, hanno scritto in una lettera i membri afro-americani dell’università. Gay ha ricevuto anche il sostegno di oltre settecento tra docenti, studenti, ex studenti, a prescindere dalla loro appartenenza etnico-razziale. Alla fine, per placare ulteriormente gli animi, è servita l’intervista che Gay ha dato all’Harvard Crimson, il giornale del campus. “Invocare la violenza nei confronti della nostra comunità ebraica – minacciare i nostri studenti ebrei – non ha spazio a Harvard e non può non essere combattuto”. I nemici di Gay continuano ora a chiederne l’allontanamento. “Non penso che la presidente possa sopravvivere a lungo termine, ma nemmeno a medio termine”, dice Bill Ackman, amministratore delegato dell’ hedge fund Pershing Square, di origini ebraiche, ex allievo di Harvard, tra i grandi benefattori dell’università, tra i più scatenati a chiedere le dimissioni di Gay. Nonostante critiche e appelli, Gay va comunque avanti.

“Una è fuori. Mancano le altre due” aveva detto Elise Stefanik sabato, subito dopo le dimissioni di Magill. La sua predizione/auspicio non si è dunque alla fine realizzata. Gay non è “fuori” e anche Sally Kornbluth (che peraltro è ebrea), la terza presidente di un’università ascoltata davanti alla Commissione della Camera, sembra aver resistito ai momenti peggiori della bufera. Il consiglio di amministrazione del Massachusetts Institute of Technologies le ha infatti riconfermato la sua fiducia. “Ha svolto un lavoro eccellente nel guidare la nostra comunità, nell’affrontare l’antisemitismo, l’islamofobia e altre forme di odio” ha scritto la Mit Corporation. Del resto, proprio come chi ha scatenato la campagna contro le dirigenze delle università (ben 74 membri del Congresso hanno chiesto la rimozione di Magill, Gay e Kornbluth), anche i difensori delle tre hanno avuto il tempo di riorganizzarsi e preparare una risposta.

Da subito sono peraltro risultati chiari due elementi. Il primo ha a che fare con la politica. Martellando senza pietà le dirigenti universitarie, i repubblicani della Camera hanno riversato anni di scontri con le massime istituzioni universitarie su affirmative action, cancel culture, atleti transgender. L’antisemitismo è diventato quindi una sorta di strumento per regolare vecchi conti in sospeso. C’è poi un secondo elemento importante. Sotto pressione da settimane, al centro di attacchi implacabili da parte degli opposti estremi, chiamate a sostenere un’audizione al Congresso che è durata cinque ore, Magill, Gay e Kornbluth hanno cercato di mantenere i nervi saldi ma hanno finito per dare risposte formali, da codice universitario appunto, a questioni che hanno invece profonde implicazioni morali e sentimentali. Di qui il loro passo falso e le successive polemiche.

Ciò non toglie che quello attuale sia un momento come pochi altri nella storia delle università americane. Bisogna tornare ai tempi della guerra del Vietnam per ritrovare un clima così acceso nei campus. Scontri fisici e verbali, minacce, dimostrazioni, occupazioni, sit-in, accuse e controaccuse si susseguono da settimane. Nei campus, in fondo, si riflette e moltiplica, grazie anche all’uso diffuso dei social media, una polarizzazione che segna tutta la società americana e che ha portato a un aumento sensibile di atti di antisemitismo e islamofobia. Cair, il Council on Islamic-American Relations, ha registrato tra ottobre e novembre 2023 un aumento del 216% degli atti di islamofobia rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. “Non succedeva dai mesi dell’ascesa a presidente di Donald Trump”, dice il gruppo. Ma in aumento sono anche i dati sull’antisemitismo. L’Anti-Defamation League ha segnalato, nell’ottobre 2023, un 400 per cento in più rispetto al 2022 nelle violenze e minacce contro gli ebrei americani.

Oltre la cronaca, gli eventi di queste ultime settimane pongono comunque una serie di problemi più generali. Fin dove è possibile spingersi con le parole? Quando un discorso smette di essere semplice opinione, per diventare minaccia? La libertà di opinione, garantita dal Primo Emendamento, ha comunque dei limiti? Le presidenti delle tre università hanno cercato di tutelare le opposte esigenze – diritto di espressione e sicurezza all’interno del campus – e sono state travolte. La cosa non riguarda ovviamente soltanto la possibilità di dire cose violente, antisemite o islamofobe, nei campus. Preoccupano anche le prese di posizioni di entità esterne alle università. Raramente, nella storia americana, si era assistito a un attacco così esplicito alla libertà di espressione nei campus da parte di politici e donatori esterni. Lo hanno detto, molto chiaramente, i professori di Penn University: “Siamo preoccupati per il potere coercitivo che amministratori e donatori esercitano su questioni accademiche e di competenza dei docenti. Siamo turbati dalle molestie, intimidazioni e minacce di violenza personale che i docenti hanno subito per aver partecipato ad attività accademiche legittime ed eventi pubblici nel campus. Siamo preoccupati per gli effetti agghiaccianti delle dichiarazioni di amministratori e donatori sull’insegnamento e l’apprendimento”.

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