I familiari degli ostaggi israeliani da una parte, quelli dei civili palestinesi uccisi dalle bombe d’Israele dall’altra. I volti solcati dalle lacrime del lutto e della paura, tra le mani il sangue dei parenti e amici innocenti uccisi dalla violenza di un conflitto col quale convivono fin dalla nascita. L’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso e la reazione violenta dello Stato d’Israele li volevano su due fronti contrapposti, ma a due mesi di distanza i sopravvissuti palestinesi e i parenti dei prigionieri israeliani lanciano lo stesso appello a Hamas e al governo di Tel Aviv: “Tregua“.

I parenti e gli amici delle persone rimaste nelle mani del partito armato palestinese hanno vissuto i giorni di tregua come un sadico conto alla rovescia. Ogni mattina si sono svegliati nella speranza che tra le decine di ostaggi liberati comparissero i volti dei loro cari. Ogni volta la speranza si è presto trasformata in delusione, fino al giorno in cui le armi sono tornate a tuonare e si sono dovuti rassegnare a una nuova fase di conflitto, consapevoli che tra le migliaia di vittime dei raid israeliani possano esserci anche i loro cari, tra i 138 che non hanno avuto la fortuna di salire sui mezzi della Croce Rossa e tornarsene a casa.

Chissà come hanno vissuto quelle immagini di liberazione. Certamente con la felicità di chi vede i propri concittadini sani e salvi, ma anche con il dispiacere di sapere che tra questi potevano esserci i loro cari. Così, con Tel Aviv impegnata a bombardare il centro e il sud della Striscia dopo avere di fatto raso al suolo la parte settentrionale, altri giorni di pausa umanitaria sono diventati la loro principale aspirazione, ciò che più si avvicina al momento della liberazione dei loro congiunti. È soprattutto per questo che pochi giorni fa hanno chiesto, ottenendolo, di essere ricevuti dal primo ministro, Benjamin Netanyahu, ribadendo il proprio appello per un cessate il fuoco e la salvaguardia delle vite degli ostaggi. I negoziati sulle liberazioni, hanno detto in sintesi, non possono finire in secondo piano rispetto al desiderio di vendetta: “Se non avete intenzione di rappresentarci – ha dichiarato uno dei parenti – ci rivolgeremo a un ente internazionale”.

Netanyahu, però, non sembra sentirci e porta avanti il suo obiettivo-spot di “sradicare Hamas”, qualsiasi cosa voglia dire. La risposta data ai familiari degli ostaggi è stata, se possibile, brutale tanto quanto la realtà: “Non c’è la possibilità di riportare ora tutti a casa. Se ci fosse la possibilità nessuno la rifiuterebbe”. Quale miglior modo per provocare la risposta dura dei familiari degli ostaggi che già chiedevano, come gran parte della popolazione, le dimissioni di un premier colpevole di aver ignorato gli innumerevoli avvertimenti che arrivavano dalla Striscia su un attacco imminente? L’incontro “è stato una vergogna”, hanno dichiarato all’unisono.

Le parole di Netanyahu, oltre a trasmettere un certo distacco emotivo del premier dalla situazione nella quale si trovano ancora 138 persone e i loro familiari, ha fatto apparire remota la possibilità di un loro ritorno a casa in tempi brevi. La paura di non vivere in prima persona le immagini di sorrisi, addirittura abbracci e strette di mano con i propri carcerieri, prima di salire sui mezzi della Croce Rossa. Come quelle di Yocheved Lifshitz, l’85enne attivista pacifista che prima di tornare a casa ha salutato i combattenti di Hamas con uno “Shalom“. O come quelle di Sharon Avigdori e di sua figlia, Noam, di appena 12 anni, che invece hanno usato un “Goodbye“. O anche quello che è successo alla piccola Emilia, 5 anni, che tornata nella sua scuola è stata accolta con l’abbraccio collettivo dei suoi compagni. Per gli ostaggi rimasti questi momenti rischiano di non arrivare. Almeno fino a quando, come ha puntualizzato il leader di Hamas in Libano, Osama Hamdan, “l’aggressione” israeliana “non finirà”.

La tregua la bramano anche e soprattutto i civili di Gaza che da due mesi si addormentano sotto i boati delle bombe israeliane senza sapere se le mura che li accolgono stiano per diventare la loro tomba. Queste persone, già afflitte da anni di occupazione e blocco ai rifornimenti che rende difficile reperire beni di prima necessità, sono i veri protagonisti senza voce di questa guerra. I numeri sono senza precedenti negli ultimi decenni: 16mila civili uccisi in soli due mesi a fronte di 2,3 milioni di abitanti. In rapporto alla popolazione, è come se in 60 giorni di guerra venisse sterminata l’intera popolazione di Bologna più altre 30mila persone. Il numero degli sfollati, se possibile, impressiona ancora di più: sono 1,9 milioni le persone che sono fuggite dalle loro case. Per tutte queste, date le estreme difficoltà di far arrivare aiuti umanitari nella Striscia, la tregua può rappresentare il confine tra la sopravvivenza e la morte.

I piani del governo israeliano, trainato dalle dichiarazioni violente della destra più estrema e dal disperato bisogno di Netanyahu di rimanere al potere, vanno però nella direzione opposta: guerra dura fino all’eliminazione definitiva di Hamas. “Questa è la Monaco della nostra generazione“, ha dichiarato il capo dello Shin Bet, il servizio segreto interno, Ronen Bar, facendo un parallelo con gli attentati palestinesi alle Olimpiadi del 1972 che portarono a una stagione di uccisioni mirate di presunti esponenti di Settembre Nero in giro per il mondo. Un modo per dire che la caccia a Hamas si fermerà solo con la sua eliminazione finale. Un obiettivo che, a detta di diversi osservatori, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron, potrebbe richiedere anni. Tempo che né gli ostaggi né la popolazione palestinese hanno. Per questo, allo stesso modo, ufficiali della sicurezza israeliana hanno spiegato che potrebbe volerci un altro mese di guerra prima di poter aprire a una nuova tregua. Nel frattempo, ai familiari dei prigionieri di Hamas e alla popolazione di Gaza non resta che resistere e continuare a far sentire la propria voce.

Twitter: @GianniRosini

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