“Mai, nell’esperienza giudiziaria, un reperto di esorbitante rilievo investigativo è stato trasferito dalla disponibilità del Carabinieri a quella della Polizia di Stato, e ciò sia attraverso formale documentazione del trasferimento sia attraverso attività mai formalizzata e per ciò solo abbondantissimamente illecita“. È con queste parole che l’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, si esprime sul passaggio di mano della valigetta di Paolo Borsellino in via d’Amelio poco dopo la strage del 19 luglio 1992. Secondo il racconto di tre poliziotti, infatti, il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli avrebbe ceduto quella borsa, dove Borsellino aveva riposto la sua agenda rossa, all’ispettore Giuseppe Lo Presti. Quest’ultimo non ricorda quasi nulla di quella giornata, ma secondo i colleghi Armando Infantino e Nicolò Manzella avrebbe sottolineato ad Arcangioli come la competenza delle indagini fosse della Polizia, visto che sul luogo della strage erano intervenute per prime le Volanti. La procura generale di Caltanissetta ha depositato i verbali di questi testimoni al processo di secondo grado per il depistaggio delle prime indagini sulla strage.

“Quei verbali non possono essere prove” – Oggi l’avvocato Repici, con una memoria di 13 pagine inviata via pec alla corte d’Appello nissena, chiede al presidente Giovanbattista Tona di non acquisire quei verbali, ma di ascoltare in aula i tre poliziotti. “Preliminarmente, ragioni morali prima ancora che professionali e processuali impongono al sottoscritto difensore di negare il consenso all’acquisizione dei verbali delle dichiarazioni di Infantino, Lo Presti e Manzella, perché sarebbe davvero irragionevole che esse assumano dignità di prova”, scrive l’avvocato, riferendosi ai sette verbali firmati da Armando Infantino, Giuseppe Lo Presti e Nicolò Manzella tra il marzo del 2019 e il novembre del 2023. “Trattasi di dichiarazioni che, eufemisticamente, possono essere qualificate come sconvolgenti. Poiché in una prima fase (e anche in una prima versione) esse furono raccolte nel 2019, cioè durante il giudizio di primo grado del presente processo, se ne ricava che la Procura della Repubblica non le ritenne meritevoli di attenzione, visto che non le depositò nel presente procedimento. Ora vengono depositate, insieme ad altre raccolte in una seconda fase (e anche in una seconda versione) in tempi recentissimi, con le conseguenti richieste già formulate dalla Procura generale”, prosegue Repici. Ricordando che “dal 2019, memorie di appartenenti alla Polizia di Stato si sono miracolosamente riattivate dopo decenni di letargo e dopo lustri di omertà perfino davanti al robustissimo battage informativo che accompagnò il processo a carico del capitano Arcangioli e hanno prodotto rivelazioni che illuminano lo scenario della strage di via D’Amelio, dell’apprensione della borsa di Paolo Borsellino e del trafugamento della sua agenda rossa in una ricostruzione psichedelica con tanto di luci stroboscopiche“, scrive l’avvocato, citando il titolo di un articolo pubblicato da Salvatore Borsellino su Micromega (“Luci stroboscopiche sulla strage di via d’Amelio”). Negando il consenso all’acquisizione dei verbali, Repici scrive ai giudici: “Vista l’enormità delle rivelazioni fatte da soggetti che sono pur sempre (per quanto verrebbe difficile crederlo, visti i modi e i tempi delle dichiarazioni) testi istituzionali, ritiene doveroso che sulla scorta di quelle fonti (che, se ritiene, la Corte potrà valutare solo ai fini delle determinazioni da assumere sulle richieste istruttorie) indicate dalla Procura generale venga disposta attività istruttoria”.

“Sentire in aula Arcangioli come testimone” – Per questo motivo Repici vorrebbe ascoltare in aula Infantino, Lo Presti e Manzella, ma pure Francesco Paolo Maggi, il poliziotto che ha sostenuto di aver prelevato la borsa dall’auto in fiamme di Borsellino e di averla portata alla Mobile nella stanza di Arnaldo La Barbera. L’avvocato chiede anche di sentire Arcangioli “in qualità di testimone, essendo stato prosciolto con sentenza non irrevocabile“. Va sottolineato che l’allora capitano dei carabinieri non ha mai raccontato di aver passato la valigetta a un ispettore di Polizia nonostante avesse tutto l’interesse a fatto: è noto, infatti, come sia finito sotto inchiesta con l’accusa di aver trafugato l’agenda, prima di essere scagionato. Per ricostruire i passaggi della borsa, Repici chiede di ascoltare anche l’allora maggiore Marco Minicucci, all’epoca comandante del Nucleo operativo dei carabinieri di Palermo, l’allora tenente colonnello Emilio Borghini, che invece nel 1992 guidava il Gruppo carabinieri Palermo 1. Secondo la ricostruzione di Angelo Garavaglia Fragetta, co fondatore del movimento Agende Rosse di Borsellino, Arcangioli si sarebbe potuto dirigere verso l’auto di Borghini, quando venne ripreso dalle telecamere mentre si allontana da via d’Amelio con la valigetta in mano. Repici chiede inoltre di sentire altri poliziotti: Gabriella Tomasello e Andrea Grassi, che nel 2006 riferirono di avere visto la borsa di Borsellino negli uffici della Squadra Mobile, oltre a Paolo Fassari, Claudio Sanfilippo e Gioacchino Genchi.

“Scarantino era il jolly di La Barbera” – La citazione dell’ex superconsulente informatico della Polizia viene chiesta anche in ordine ad altri filoni. Il primo è quello relativo alla foto segnaletica di Vincenzo Scarantino, il falso pentito che con le sue bugie ha reso possibile il depistaggio di via d’Amelio: fu mostrata a Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto ucciso insieme alla moglie a Villagrazia di Carini il 5 agosto del 1989. Repici ha ricostruito tutta la vicenda, visto che rappresenta la famiglia Agostino nel processo sul duplice omicidio, risolto dopo più di trent’anni anche grazie alle sue indagini difensive. “Correttamente la Procura generale rileva che quel verbale costituisce la prova che la Squadra mobile guidata da Arnaldo La Barbera aveva la figura di Vincenzo Scarantino come ‘jolly‘ da utilizzare per sviare le investigazioni e la giurisdizione già due anni prima della strage di via D’Amelio”, scrive l’avvocato di Borsellino. Che poi spiega come l’inserimento della foto del balordo della Guadagna tra le segnaletiche sottoposte ad Agostino servisse a “individuare Vincenzo Scarantino quale ‘Faccia da mostro‘, col prevedibile seguito di misura cautelare per Scarantino nel 1990 per il duplice omicidio Agostino-Castelluccio, le forzature a farlo confessare, magari al fine di fornire un supporto alla scandalosa causale passionale di quel delitto che la Squadra mobile di Palermo nel 1990 furiosamente tentava di accreditare. L’effetto, oltre al depistaggio in sé, esattamente come anni dopo accadde per la strage di via D’Amelio, sarebbe stato di eliminare presenze istituzionali (Giovanni Aiello era stato un poliziotto e sicuramente era stato al centro di relazioni criminali, istituzionali e non, ben più che allarmanti, comprovate nel processo palermitano) dallo scenario. In fondo, nascondere le responsabilità di apparati istituzionali è stato il leit-motiv del depistaggio della Polizia di Stato sulla strage di via D’Amelio”.

La lista dei testimoni – Quel verbale d’individuazione fotografica, tra l’altro, è firmato da Maurizio Zerilli, indagato per depistaggio insieme ad altri quattro colleghi, che in aula è stato definito come “l’uomo dei misteri” dal sostituto pg Maurizio Bonaccorso. “È sicuramente doveroso nel presente processo (fondato sul concorso nelle calunnie fatte esecutivamente eseguire a Vincenzo Scarantino) sapere come, quando, perché e su impulso di chi si decise l’individuazione di Vincenzo Scarantino quale ‘jolly’ per imbastire depistaggi su delitti eccellenti. Naturalmente, lo si dovrà fare non solo con l’esame dell’ufficiale di polizia giudiziaria sottoscrittore del verbale in questione, ma anche con i funzionari della Squadra mobile del tempo”, scrive l’avvocato di Salvatore Borsellino. Per questo motivo, oltre a Zerilli e a Genchi, Repici vuole ascoltare Guido Longo, che nel 1990 era vice dirigente della Squadra mobile di Palermo, e Luigi Savina, all’epoca responsabile della sezione omicidi.

“Questo processo è l’ultima occasione per la verità” – Ma non solo. Nella sua memoria, infatti, Repici tocca una serie di punti rimasti insoluti sulla strage. “Non è purtroppo ipotesi improbabile che il presente processo sia l’ultimo nel quale poter svolgere compiuta attività di istruttoria dibattimentale al fine di ricostruire quanto più compiutamente cosa sia accaduto intorno alla strage di via D’Amelio, quale sia stata la sua ideazione, quale sia stata la sua esecuzione e quale sia stata la criminosa attività di depistaggio, parte della quale è richiamata precipuamente dalle imputazioni ascritte agli imputati”. L’avvocato, dunque, cita l’indagine della procura di Caltanissetta sulla figlia e sulla moglie di La Barbera, il superpoliziotto indicato come il grande gestore del depistaggio.

Sentire i testimoni dell’indagine sui La Barbera – Secondo l’ipotesi dell’inchiesta coordinata dal procuratore Salvatore De Luca e l’aggiunto Pasquale Pacifico, infatti, l’agenda rossa di Borsellino sarebbe finita all’allora capo della Mobile. E dopo la sua morte, avvenuta nel 2002, il diario del giudice ucciso in via d’Amelio sarebbe stato custodito alla moglie e alla figlia di La Barbera. Almeno secondo quanto riferito ai pm da un super testimone, cioè il padre di un’amica della figlia del superpoliziotto. La procura, nei mesi scorsi, ha anche ordinato delle perquisioni e dei sequestri ma ha rifiutato di depositare i relativi decreti al processo sul depistaggio, come avevano richiesto le parti civili. “Per sconcertante paradosso, dunque, oggi persone congiunte del dottor Arnaldo La Barbera hanno (e doverosamente, ci mancherebbe che non fosse così!) piena cognizione di risultanze di indagine che indurrebbero a ipotizzare che l’agenda rossa del dottor Borsellino sia stata fino al momento della sua morte nella disponibilità del dottor La Barbera, trapassando al suo decesso nella disponibilità della moglie e/o della figlia, fino a epoca recente; al contempo, ai familiari del dottor Paolo Borsellino viene negata cognizione di quegli stessi elementi”, attacca Repici nella sua memoria. L’avvocato chiede quindi di sentire in aula l’amica di Serena La Barbera e suo padre, che sarebbe poi l’uomo che con la sua testimonianza ha fatto riaprire le indagini sull’agenda rossa. Repici vuole pure che venga in aula Marina Busetto, “che secondo quanto accertato nel processo Borsellino quater è stata unita da un legame intimo al dottor La Barbera da prima del 19 luglio 1992 fino alla sua morte, perché riferisca sul possesso in capo a La Barbera dell’agenda rossa del dottor Borsellino e sul percorso che quel prezioso reperto abbia fatto alla morte del funzionario di polizia”.

Il depistaggio e le dichiarazioni di Avola – Repici chiede anche di ascoltare Maurizio Avola, collaboratore di giustizia uscito dal programma di protezione, che si era autoaccusato della strage di via D’Amelio, tirando in ballo anche i boss catanesi Aldo Ercolano e Marcello D’Agata. Avola si è pentito nel 1994 ma ha aspettato fino Al 2020 per sostenere di avere partecipato all’eliminazione di Borsellino. La versione del pentito era divenuta di pubblico dominio con il libro di Michele Santoro Nient’altro che la verità. Era per questo motivo che la procura di Caltanissetta, allora diretta dal facente funzioni Gabriele Paci, aveva dovuto diffondere un comunicato stampa per smentire le affermazioni di Avola. I pm nisseni hanno poi chiesto l’archiviazione per l’ex killer catanese: richiesta recentamente rigettata dal gip, che ha ordinato nuove indagini. “Tuttavia – scrive Repici – è evidente che nel presente processo non si possa far finta che quelle ‘rivelazioni‘ (molto più psichedeliche di tutto quanto visto fino a oggi e insuperabilmente illuminate da ‘luci stroboscopiche‘) non esistano. Ciò posto, l’attività di depistaggio nell’ambito della quale gli imputati avrebbero posto in essere le condotte a loro contestate, di fatto avrebbe implicato anche l’ipotesi che, con la criminosa gestione di Scarantino, abbiano voluto occultare la responsabilità di uomini d’onore della famiglia catanese di Cosa Nostra, quali Maurizio Avola e Aldo Ercolano”. Quindi l’avvocato chiede di ascoltare Avola “sulle ragioni e sui tempi delle sue dichiarazioni al riguardo della strage di via D’Amelio, sui contatti da lui avuti con terzi soggetti al riguardo di tali dichiarazioni”.

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