Ce ne fossero al giorno d’oggi politici della stazza di Henry Kissinger. Sullo scacchiere internazionale, in Occidente come nel resto del mondo, i principali leader di molte nazioni sono alle prese con scenari di guerra, caos e incertezza, dall’Ucraina a Israele. Impossibile però riconoscere in chicchessia la lungimiranza, la visione, persino la sfrontatezza tipiche del Segretario di stato di Richard Nixon morto all’età di 100 anni.

Un colosso. Un uomo entrato nella storia, che ha plasmato per decenni la politica di dominazione egemonica globale degli Stati Uniti (con una nota a margine: egemonico sì, ma dal 24 febbraio 2020 era tra i pochi americani – forse John Mearsheimer è l’altra voce – ad esprimere tesi, idee e dubbi sull’impossibilità per l’America di fronteggiare due nemici sistemici allo stesso tempo, Russia e Cina, oggi alleati “permanenti” e “senza limiti”).

Tuttavia l’ebreo fuggito 15enne dalla Germania nazista nel 1938, poi naturalizzato statunitense, che ha ricoperto le massime cariche dell’Amministrazione Usa (ha servito i presidenti repubblicani Nixon e Ford come consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di stato della Casa Bianca) è ben lontano dal poter essere sbandierato come un eroe della diplomazia americana. Anzi, molti critici gli hanno affibbiato l’etichetta di “criminale di guerra” e nessuno come lui, in politica estera, è stato preso di mira con tanta veemenza.

Il più feroce degli anti-Kissinger fu Christopher Hitchens, che nel libro Il processo a Henry Kissinger (2001) lo accusò esplicitamente di responsabilità per “crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Proverbiale la sua cinica e spregiudicata realpolitik. Fece intervenire la Cia per rovesciare il governo democraticamente eletto in Cile (temeva che Salvador Allende fosse una testa di ponte sovietica in Sud America), appoggiando il dittatore Augusto Pinochet. Autorizzò i bombardamenti a tappeto e l’invasione segreta della Cambogia; la dittatura dei militari in Argentina; approvò l’invasione di Timor Est da parte del dittatore dell’Indonesia; diede l’ok al regime di apartheid in Sud Africa e all’invasione dell’Angola.

Ognuno dei passi compiuti dal Dipartimento di Stato aveva uno scopo: contenere il nemico numero uno del capitalismo a stelle e strisce, l’Unione Sovietica, visto che Mosca cercava di espandere la sua influenza ovunque, dal Medio Oriente al Sud America. La verità è che Kissinger fu il campione molto visibile di politiche del deep state collaudate per anni anche in seguito. Gli americani o sono potenza egemonica globale o entrano in crisi. Anche altre amministrazioni si sono trovate ad affrontare scelte simili, preferendo i dittatori militari ai marxisti e ai comunisti locali, e inviando ogni volta l’esercito e l’aviazione Usa in paesi stranieri.

L’Europa per Kissinger non è mai stata una priorità, in gran parte perché non era (men che mai lo è oggi) una potenza regionale in grado di inserirsi nella competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Favoriva un’Europa occidentale vassalla di Washington, forte e unita soprattutto per tenere sotto controllo la Germania. Famosa una sua frase: “Se voglio chiamare l’Europa, chi chiamo?”. Dalle capitali europee si guardava alla Casa Bianca per ottenere sicurezza (l’ombrello atomico della Nato) e leadership, in quella fase di duro confronto tra le due superpotenze nucleari. Oggi – inutile minimizzare come fosse un dettaglio – nulla è cambiato. Anzi, per l’Italia con il governo di Giorgia Meloni è perfino peggio.

Kissinger entrò in carica affrontando tre grandi problemi di geopolitica globale: l’Asia (doppio fronte, la guerra in Vietnam e la Cina comunista guidata da Mao Zedong); l’Unione Sovietica (la crescita dei rispettivi arsenali nucleari); il Medio Oriente (petrolio, una polveriera perenne). Forse il suo massimo risultato diplomatico fu il riavvicinamento con la Cina, un’idea di Nixon, implementata in modo superlativo dal Segretario di stato. Non erano politiche facili in quel momento. Se Washington avesse stretto amicizia con Pechino, l’Unione Sovietica avrebbe potuto diventare più accomodante sul controllo degli armamenti, e anche su Berlino. Come infatti è avvenuto.

Molti e di stampo storico i successi diplomatici. Come la negoziazione del primo Trattato sulla limitazione delle armi nucleari strategiche e del Trattato sui missili anti balistici con l’Unione Sovietica (Armi nucleari e politica estera fu il libro che lanciò la sua carriera). Intermediò il primo accordo di pace tra Egitto e Israele (dopo la guerra lampo dello Yom Kippur). Guidò i colloqui che misero fine al coinvolgimento degli Stati Uniti nella lunga e sanguinosa guerra in Vietnam, negoziati per i quali lui e il suo omologo nordvietnamita Le Duc Tho (che lo rifiutò) ricevettero un controverso Premio Nobel per la pace nel 1973.

Le accuse contro Kissinger della sinistra liberal americana e internazionale, e di molte associazioni per la difesa dei diritti umani, sono state dure, esplicite e insistite per anni. Lui ci era abituato, al punto che anche in tarda età era contestato da proteste quando appariva in pubblico. Anche il suo modus operandi è stato oggetto di pesanti critiche. Non solo l’assertività della politica estera americana nel mondo, ma la politica dentro l’amministrazione. Kissinger ordinò che i telefoni di 17 persone fossero intercettati illegalmente (cioè senza mandato dei giudici), compresi vari giornalisti e anche vari membri dello staff del Consiglio di sicurezza nazionale.

Abuso di potere? Plateale. Arrivò a definire il potere “unico vero afrodisiaco”. E scherzando ma non troppo disse: “L’illegale lo facciamo subito, l’incostituzionale richiede ancora un po’ di tempo”.

Eppure, alla fine, non è stata la geopolitica a far cadere quel tedesco venuto dalla Baviera. Fu lo scandalo Watergate. Con le dimissioni di Nixon, prima di un quasi inevitabile impeachment dopo l’inchiesta del Washington Post, Kissinger rimase Segretario di stato anche con Gerald Ford. Ma quando il repubblicano nel 1976 perse le elezioni contro Carter, tirava un’altra aria. Carter voleva girare pagina, nuovi consiglieri e una politica estera improntata alla moralità. Durò solo un mandato.

Molti decenni dopo l’ambizione quasi paranoica che fa degli Stati Uniti l’unica nazione che si ritiene in grado di gestire l’ordine mondiale mostra crepe profonde e crescenti istanze di rivalsa. Chi sarà il futuro Kissinger in grado di cimentarsi con il risentimento del mondo multipolare, in continuo e accelerato cambiamento?

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