Stiamo percorrendo la strada della militarizzazione a una velocità sempre più elevata. La spesa per le armi, nei Paesi NATO dell’Unione Europea, è infatti cresciuta in 10 anni 14 volte più del Pil complessivo. E solo in Italia è passata da 2,5 miliardi di euro a 5,9 miliardi: più del doppio. A denunciarlo è il rapporto “Arming Europe” commissionato da Greenpeace Italia, Germania e Spagna che analizza l’impatto di tali investimenti in Europa e in particolare nei tre paesi coinvolti nel rapporto. Una simile traiettoria di militarizzazione – è la conclusione – non può essere giustificata né a livello economico, né sulla base delle esigenze di sicurezza dell’Europa. La corsa agli armamenti, come evidenza lo studio, è infatti un problema su più piani: non solo su quello della sicurezza, perché un’Europa più militarizzata non servirà a risolvere gli attuali conflitti bellici, ma anche su quello strettamente economico e produttivo.

Partiamo dai dati. Le spese militari complessive dei paesi sono aumentate di quasi il 50%, passando da 145 miliardi di euro nel 2014 a una previsione di bilancio di 215 miliardi nel 2023. Si tratta, per intenderci, di un valore pari all’intero Pil del Portogallo. Nel 2023 la spesa complessiva per gli armamenti nei Paesi UE della NATO ha raggiunto quindi i 64,6 miliardi di euro (+270% in un decennio).

A questo aumento sostanziale, è seguito un allineamento ufficiale dell’Unione Europea. Dopo decenni di assenza nelle questioni militari, infatti, l’Ue ha lanciato il Fondo europeo per la difesa, con 7,9 miliardi di euro per la ricerca e la produzione di nuovi armamenti nel periodo 2021-2027, e il Fondo europeo per la pace, con 12 miliardi di euro per aiuti e forniture militari fuori dall’UE nello stesso periodo.

In un contesto di difficoltà delle finanze pubbliche che affligge sia l’Italia sia gli altri paesi dell’Unione, tale aumento della spesa militare è evidentemente avvenuto a discapito di altre voci della spesa pubblica. In Italia, la crescita della spesa per le armi (+132%) tra il 2013 e il 2023 supera anche quella della spesa pubblica in conto capitale per la costruzione di scuole (+3%), ospedali (+33%) o impianti di trattamento delle acque (che ha registrato addirittura un trend negativo: -6%).

Ed è in netto contrasto con l’attuale stagnazione economica dei paesi: tra il 2013 e il 2023, il PIL reale è aumentato del 12% (poco più dell’1% in media all’anno), l’occupazione totale del 9%. E le spese militari? Del 46%, quattro volte l’aumento dell’intera economia nazionale. In media, ogni cittadino dei Paesi NATO della UE nel 2023 pagherà per la spesa militare 508 euro contro i 330 euro del 2013. Il conto per ogni cittadino italiano sarà di 436 euro.

Un investimento anche economicamente non produttivo. Applicando la metodologia Input-Output – che analizza gli effetti sulla domanda nazionale diretta e indiretta attivata da una spesa pubblica iniziale – si scopre, infatti, che l’acquisto di armi ha un effetto moltiplicatore sul resto delle attività economiche nettamente inferiore a quello degli investimenti nei settori ambientale, sanitario e dell’istruzione. Tra le ragioni di questo scarto c’è il fatto che la quota delle importazioni è molto più elevata nelle acquisizioni di armi (circa il 59% per l’Italia) che negli altri settori considerati (meno dell’1%). L’aumento della spesa militare, quindi, conduce l’Europa verso una minore prosperità economica e una minore creazione di posti di lavoro, peggiorando i livelli di sviluppo.

L’altro aspetto fondamentale su cui porre l’attenzione è quello della sicurezza. Secondo l’analisi, infatti, investire sulle armi non è utile nemmeno dal punto di vista della sicurezza dei paesi coinvolti. La sicurezza in Europa andrebbe garantita con accordi politici e diplomatici, iniziative di prevenzione e risoluzione dei conflitti. E addirittura con l’aumento del controllo degli armamenti e con processi di disarmo. Infatti una strategia di militarizzazione potrebbe portare a nuove corse agli armamenti anche per gli altri paesi nel mondo, con l’effetto immediato di destabilizzare ulteriormente l’ordine internazionale fuori e dentro l’Europa.

Inoltre, la sicurezza non deve essere intesa solo in termini militari. Le Nazioni Unite hanno adottato il concetto di “sicurezza umana” nella risoluzione 66/290 del 10 settembre 2012. In base a questo concetto, i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali devono essere rispettati per creare e mantenere la pace. Le condizioni che consentono la protezione di tali diritti devono essere finanziate, e l’aumento delle spese militari riduce le risorse disponibili per farlo. L’emergere di nuove necessità di sicurezza – tra cui la sicurezza ecologica e la sicurezza umana – è stato sottolineato dall’UNIDIR (Istituto delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Disarmo) e dal SIPRI (Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma). E le spese militari, in definitiva, non contribuiscono a queste nuove prospettive. In conclusione le alternative – più spese per l’ambiente, l’istruzione e la salute – avrebbero avuto anche effetti economici più positivi sulla produzione e sull’occupazione. Ma evidentemente non sono prioritarie.

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