Tra le tante immagini della calda e soleggiata estate italiana, ce n’è una un po’ nascosta che mi ha accompagnato. L’espressione di viscerale disgusto di mia madre, a pranzo o cena. Ogni volta che al telegiornale usciva la notizia di uno stupro, un femminicidio, una violenza di genere. Una cosa che viene davvero dal profondo, e lo noti, si vede. Anche perché io e mio padre siamo stati abbastanza fortunati da non vederla spesso, quell’espressione. Anzi, quasi mai, andando a memoria.

Che poi possiamo dirlo anche così, “una violenza”, perché è successo così tante volte che anche linguisticamente il numero di casi si perde nell’indeterminatezza degli articoli. E non che io e mio padre vi rimanessimo indifferenti. Però ecco, io e mio padre siamo comunque uomini – c’è un piano di comprensione di quel disgusto a cui, naturalmente e socialmente, secondo me non si arriva.

Attenzione: ora non mettiamoci a tirare fuori statistiche per ridimensionare o minimizzare. Ci sono 52 settimane in un anno. Al 12 novembre (dati Interno), 102 donne sono state uccise, di cui 82 in ambito familiare o affettivo, di cui 53 per opera del partner o dell’ex. Molte, avevano già denunciato. In questa conversazione, questo basta. Praticamente ogni settimana abbiamo tutti letto o sentito parlare di questo tema. Eppure tutt’intorno regnava (e regna) quotidianamente il mezzo sorriso, l’impunità – nei commenti, nelle battutine “inoffensive”, nelle “sfumature del caso”, nel “eh ma sono malati”, nel “lupo dalle cattive intenzioni”. I commenti e le battutine sono inoffensivi solo per chi li pronuncia. Le sfumature del caso sono roba da avvocati. Malati questi non sono, né tantomeno lupi – e di sicuro non solitari.

Compari, qui la responsabilità è e deve essere quotidiana, e bisogna chiamare le cose col loro nome. Anche e soprattutto con gli amici, senza remore. Nei bar, negli uffici, seduti sul muretto al mare, o con la Peroni a bordocampo dopo la partita di calcetto.

Le cose non succedono mai, fin quando non succedono per davvero. È troppo facile dire “io non lo farei mai”, chissà quante volte l’avranno pensato anche quelli che poi l’hanno fatto. O marginalizzare i colpevoli – quando vengono beccati – col “sono pazzi”, sono “altro” dalla società in cui vivo io. La violenza di genere è figlia di convinzioni e atteggiamenti radicati. E i fatti gravi sono figli delle piccole cose.

Proprio perché queste cose sono strutturali: la violenza come opzione reale, il controllo, l’esercizio del potere sulla vita di una donna. Non siamo ‘nati imparati’ esattamente perché tutto ciò è parte integrante della società in cui viviamo, non ci sono santi protettori e maiali. C’è però una curva di apprendimento per tutti, me compreso. Ed è ignorandola e non praticandola che si resta passivi, o si diventa complici.

Ascoltare, capire, spiegare ad altri, evidenziare, e condannare – sempre. Con ogni tono e mezzo efficace. Come detto, la responsabilità è quotidiana, se no qua non ce ne usciamo. Mai.

Questi pensieri non devono venire a galla solo quando si guarda alle nostre madri, sorelle, cugine, fidanzate. In questa riflessione specifica si parte da qui, ma il problema è diffuso. Onnipresente, quasi, per quanto l’ego e il rumore di molti provino comunque a circoscriverlo.

E non so voi, ma sapere che qualcunə – che cammina per strada, che va ad una festa, che deve chiarire con qualcuno – debba anche solo concepire l’eventualità che quella sia l’ultima cosa che fa prima di essere uccisə, deve suscitare solo quello stesso disgusto viscerale che sentono da tempo le donne dentro e fuori la nostra vita. E che ho visto ognuna di queste volte in mia madre.

Articolo Precedente

Persone con disabilità, si è riunito l’Osservatorio (inattivo da 7 mesi) e ora lo controlla la ministra. L’ex guida: “Così l’indipendenza è persa”

next
Articolo Successivo

“Ho smesso di tacere”. Parlerò di violenza di genere con gli studenti della Sapienza e i miei figli

next