Sette giorni di speranza, sette giorni di non detta e amara certezza. Giulia Cecchettin non sarebbe tornata da quel sequestro di persona insistentemente raccontato sui media come la “scomparsa dei fidanzatini”. Persino la stampa nella sua narrazione ha imposto a Giulia il mantenimento di un legame che lei aveva chiuso da tempo.

Filippo Turetta, al contrario, sarebbe tornato. Lo sapevamo anche questa volta, lo sapevamo tutte, così è stato. Abbiamo conosciuto Giulia e ci siamo affacciati sulla sua vita attraverso l’invadenza dei media che hanno raccontato qualcosa di lei. La laurea che avrebbe dovuto discutere giovedì scorso, gli audio dove parlava dei preparativi per la festa di laurea. L’abbiamo vista gioiosa nei selfie, insieme alla sorella e agli amici. E’ stato straziante conoscere i sorrisi, i gesti e i progetti di vita di una ragazza come tante che avrebbe potuto essere nostra figlia, intuendo ciò che sarebbe accaduto. Giulia era in gamba, portando il peso di un grave lutto da elaborare, la recente scomparsa della madre, aveva concluso un percorso di studi in Ingegneria biomedica ma voleva intraprendere un’altra strada: disegnatrice di fumetti di libri per bambini. Stava fiorendo in lei un altro percorso di vita che l’avrebbe allontanata da Vigonovo, il paese dove viveva. Ottanta chilometri la separavano dalla scuola di fumetti a Ferrara che l’avrebbe sottratta al controllo, ai ricatti morali, al bisogno di Filippo Turetta, profondo come una voragine, che chiedeva a Giulia di non muoversi, persino di non laurearsi.

Siamo turbate e arrabbiate perché un’altra donna è stata uccisa. Un altro patrimonio di vita che se ne va, spazzato via dalla furia di un ragazzo dal presente bloccato e incompiuto, invidioso del futuro che Giulia si stava costruendo, e per questo con furia vendicativa glielo ha portato via.

I femminicidi commessi da giovani uomini ci interrogano. Crescono accanto a compagne condividendo sulla carta i loro stessi diritti, le loro stesse opportunità eppure non ne tollerano la libertà. Ci coglie di sorpresa, dopo decenni di lotte femministe e di traguardi conquistati, questa violenza assurda e arcaica scagliata contro le donne che chiudono una relazione o vivono pienamente la sessualità, come se la libertà di scelta fosse ancora una sfida. E tutto questo continua a perpetuarsi, oggi come ieri, di generazione in generazione.

Che cosa stiamo sbagliando?

I numeri dei femminicidio restano stabili, le denunce delle violenze oscillano di anno in anno senza significativi aumenti, l’Istat continua a darci percentuali sulla violenza contro le donne che non cambiano. Le violenze sessuali commesse da giovanissimi sono in aumento. Il giudice Fabio Roia commentando il femminicidio di Giulia Cecchettin, ha detto che nel tribunale di Milano il 40% degli imputati per stalking, maltrattamento e violenza sessuale, hanno un’età compresa tra i 18 e i 35 anni; l’associazione Libellula ha rilevato che per il 67% dei giovani la violenza come reazione ad un tradimento, è comprensibile. Sono state fatte leggi da un decennio a questa parte, per sanzionare la violenza nelle relazioni di intimità, i governi che si sono succeduti hanno fondato tutte le risposte sulle misure securitarie ma nulla è stato fatto per agevolare e sostenere i cambiamenti nelle relazioni tra uomini e donne.

Gli interventi politici per colmare il gap di genere in tema di reddito, lavoro di cura e occupazione, sono fermi al palo. Ben poco è stato fatto per agevolare il cambiamento culturale rottamando definitivamente stereotipi, pregiudizi e aspettative sociali sui ruoli di genere. Alle giovani generazioni di uomini continua ad essere proposto o imposto un percorso di costruzione di una identità maschile che è lo stesso dei padri e dei nonni, e che esige ancora, la subordinazione delle donne che, al contrario, da decenni sperimentano libertà solo sognate dalle loro nonne. La reazione rabbiosa degli uomini è tangibile e la respiriamo in tanti luoghi e contesti, banalizzandola o persino legittimandola. La incontriamo nelle pagine delle associazioni dei padri separati (che pur hanno figlie) con commenti carichi di odio che non vengono mai cancellati o stigmatizzati dai moderatori della pagina; la incontriamo per strada, nelle micro aggressioni quotidiane; ci sconvolge quando accade l’ennesimo stupro di gruppo commesso da ragazzi appena ventenni; la leggiamo nelle chat dei luoghi di lavoro.

Massimo Guastini ha denunciato l’estate scorsa il clima che regnava in una nota agenzia pubblicitaria dove un dirigente molestava e ricattava sessualmente giovani stagiste mentre i suoi dipendenti si scambiavano commenti degradanti sulle colleghe; sui social le donne sono il principale bersaglio di hate speech. Una pervasiva misoginia abita anche i luoghi dove si amministra e si governa. Quanti deputati, senatori, sindaci negli ultimi anni si sono autorizzati a scagliare insulti sessisti contro avversarie politiche?

E’ un odio che viene parlato o viene trasformato in azione, ci circonda e lo normalizziamo. Cementa alleanze maschili, spaventa le donne e ne inibisce persino i sogni, conserva inalterate le gerarchie nelle relazioni. Poi, accade che ogni tre giorni, qualcuna muoia ammazzata.

E forse l’errore è questo: il movimento femminista continua ad occuparsi e paradossalmente a “prendersi cura” degli uomini. Ma gli uomini sono la causa della violenza contro le donne e gli uomini devono trovare il rimedio. Nessuno escluso.

Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che non torno a cena. Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in un sacco nero (Mara, Micaela, Majo, Mariana).
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia (Emily, Shirley).
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata (Luz Marina).
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata per i capelli (Arlette).
Cara mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata (Lucia).
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato abbastanza, che era il modo in cui ero vestita, l’alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico aveva delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Te lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Te lo giuro, mia cara mamma, ho urlato tanto forte quanto ho volato in alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutte le donne che urleranno il mio nome.
Perché lo so, mamma, tu non ti fermerai.
Ma, per carità, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non limitare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Lotta per le vostre ali, quelle ali che mi hanno tagliato.
Lotta per loro, perché possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti perché possano urlare più forte di me.
Perché possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.

[di Cristina Torres Càceres]

@nadiesdaa

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