Vorrei venire a sentire quello che dici, si può? Dall’altro capo della cornetta c’è mia figlia. Penso, magari. Le rispondo, certo. Mi dice, allora mi organizzo con lo studio e faccio in modo di. Ottimo, le dico e rilancio, sono contenta. Quando riaggancio sento un brivido che mi parte dalla schiena e si irradia fino alle ginocchia. Raggiungerà i piedi quando saprò che si unirà anche mio figlio, sedici anni. Non sono nuova ad avventure come quella che mi aspetta oggi pomeriggio all’Università Sapienza di Roma. Incontrare ragazzi, ragionare con loro nelle scuole, nelle palestre, nelle associazioni, non è una novità. Eppure il caos emotivo di questi giorni fa sì che l’incontro organizzato dagli universitari assuma un significato definitivo perché dopo la morte di Giulia ogni parola spesa da adesso in avanti non è mai in più. “Ho smesso di tacere” è il titolo dell’evento, e poi “Più unite e più forti”. Uno spazio e un tempo che dividerò con Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea Onlus e ad Antonella Faieta, vicepresidente di Telefono Rosa.

Quando i ragazzi della Sapienza mi hanno contattata Giulia non era ancora morta. Oggi la locandina recita Dedicato a Giulia e a tutte le vittime di violenza. L’incontro si è trasformato: da spaccato di riflessione è diventato documento di un momento storico drammatico.

Per me sarà un incontro più complicato del solito perché è la prima vera occasione in cui i figli possono giudicare le parole che dico e dare loro il peso che meritano. Realizzo che quello che sta accadendo è il passaggio dalle parole ai fatti.

Sono ormai più di dieci anni che dentro casa promuovo un bombing incessante sull’attenzione ai diritti e alle sensibilità da osservare, sono tre anni che come posso chiamo i figli al dialogo e al confronto su questo o quell’atteggiamento da aversi e da pretendere nel nome del rispetto tra i generi. Cerco di predicare bene, mi adopero per non razzolare male. Ho rivolto la stessa attenzione nella cura del dare e ricevere rispetto sia verso la figlia che verso il figlio. Ma adesso loro saranno lì davanti ad ascoltare.

Mi chiedo quanto questa violenza che uccide influisca sui ragazzi e sulla loro spensieratezza. Centosette vittime dall’inizio dell’anno impongono di parlare, eccome. Delle battaglie da fare in cui credo da sempre: le denunce (che però devono avere un riscontro), l’abuso che non è solo fisico, l’attenzione a ogni singola espressione di prevaricazione, la denigrazione, il catcalling. I mali sottili: l’invidia nella coppia (che esiste, altroché), l’allarme di fronte al controllo, l’autogestione delle proprie risorse, dire sempre no a chi ti propone un conto cointestato. I ragazzi non vanno avvertiti, che ci sono una serie di regole sane da dover osservare prima per salvarsi dopo, no. I ragazzi vanno educati, insieme alla convinzione che nessun rapporto sentimentale deve essere destabilizzante. E che alle prime avvisaglie, quella è la porta.

Vado avanti nel messaggio ricevuto da mia figlia, io sabato vado alla manifestazione, tu ci vieni? Stretta al cuore, un tassello del puzzle l’ho messo a segno, la cornice si va componendo. Certo i pezzi sono ancora tanti, sparsi nell’universo di due coscienze da formare. Penso a Viola Ardone, che “ritorna sempre sulla scuola”, e fa bene, sì. I miei figli sono fortunati, il loro liceo è tra le scuole della capitale che ha avviato un piano concordato con l’Aied – l’Associazione italiana per l’educazione demografica – a sostegno degli studenti del biennio e del triennio, incentrato prevalentemente sulla lotta alla violenza di genere. Scuola e non solo. Anche l’Università ha il suo peso, e non tutti gli atenei sono uguali. Avrò davanti ragazzi e ragazze, farò ritorno nella Facoltà di Lettere che ha formato la mia visione di oggi, la mia ricerca costante di una consapevolezza. Chissà se mi sembrerà diversa o se avvertirò di nuovo come sempre il senso di grandezza che quelle aule ispirano.

Parla tua madre?, mi resta in testa questa domanda che mia figlia si è sentita rivolgere da un’amica che ha deciso di venire anche lei. Parlerò sì, e mi aiuterò con i romanzi, perché le letture hanno un ruolo nell’indicare la via. Chiamerò a raccolta dentro di me la Atwood per prima e poi Colette, Simone de Beaouvoir e Virginia Woolf, il Marai de La donna giusta ma ancora di più quello di Divorzio a Buda. Ma soprattutto Werfel, di Una scrittura femminile azzurro pallido e poi Carver perché come ce lo ha detto lui Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore non ce lo ha detto nessuno, anzi sì, ce lo ha detto Zeruya Shalev in Una storia coniugale perché se non è violenza quella. Sottile, ma è violenza. E poi e poi e poi.

Mi fermo di colpo e realizzo. Ecco che cosa non ho mai detto, ecco la riflessione che non ho mai fatto in nessuna delle tante occasioni che ho avuto per poter lanciare un seme di ragionamento. Le madri, di loro non si parla mai. In quanto donne sono giustificate nel tacere e nel sopportare e invece no. Perché con la loro sopportazione impongono un meccanismo di prosecuzione su questa china. Non solo. Se è vero che gli uomini devono fare i conti con il patriarcato che in questi giorni è finalmente visto come un’atavica condanna, è vero anche che le donne, le madri, devono confrontarsi con una responsabilità che prima o poi verrà scardinata: l’ostinato velo del silenzio con cui coprono l’intuizione sottopelle che le assale di fronte a un comportamento anomalo di un figlio. I “mostri” non esistono in senso stretto, i mostri vengono creati da qualcuno. E questo qualcuno può essere anche una madre che lavora male. Perché una madre sa che quello che ha visto o intuito nel figlio esiste, sa che quello sguardo non è sano e che quel comportamento non va bene.

Tacere, non affrontare la realtà, girarsi dall’altra parte, non chiedere aiuto per vergogna o per orgoglio significa contribuire a creare presupposti per devianze nocive o fatali per un’altra donna, quella che domani potrebbe essere la futura partner del figlio. Dietro una suocera o una madre che tace c’è una donna che – inconsapevolmente – è la più grande nemica di tutte le donne. Perché invasa da rancore ottuso, in silenzio ripete, come ho sopportato io, sopporti anche tu. Si tratta di un nervo scoperto, di un nodo da sciogliere che è culturale e che va a toccare un sistema, quello incardinato sui preconcetti dei ruoli, del giusto e dello sbagliato, del mantenimento dello status. I drammi non accadono all’improvviso, sono figli della certezza che si sia vincenti e più forti, una convinzione radicata e sedimentata dentro le mura di casa, alimentata spesso da una madre servizievole e condiscendente con il figlio, una madre per la quale il figlio è un semidio. I problemi nascono quando questi uomini incapperanno in donne non servizievoli, non compiacenti, non condiscendenti. Le quali, per fortuna esistono. E di fronte alle quali non sono preparati. Né a conviverci né a esserne abbandonati. Quindi esplodono.

Mi rendo conto che c’è un lungo lavoro da fare, che i tasselli del mosaico sono davvero piccoli e ci vuole grande cura e pazienza. Ma ce la si farà.

Parlerà tua madre? Sì, mi sorprendo a pensare come se davanti avessi mia figlia, di’ alla tua amica che parlerò, e che dirò. Sarà un confronto tra punti di vista, il dolore di questi giorni non dovrà essere stato disseminato invano. E la sera chiederò a tutti e due i miei figli la loro opinione su quel che ha detto la madre, cioè io. Mentre finisco di scrivere queste righe vengo a sapere che ad ascoltare il dibattito si aggiungeranno sia una seconda amica che un amico. Bene, la situazione si complica.

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