Il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità della Nazione, che poi prudentemente sviluppa la dinamica tra i poteri della Repubblica secondo il principio liberale del “check and balance”, ovvero del controllo reciproco tra poteri autonomi, chiamati certo ad esercitare secondo la legge ciascuno la propria autorità, ma sempre entro limiti prestabiliti e sottoponendosi al controllo incrociato degli altri. Discende da questo la separazione tra Potere Legislativo, Esecutivo e Giudiziario.

Un accenno soltanto al fatto che il programma politico di rinascita democratica caro al venerabile Licio Gelli passasse proprio dal superamento sostanziale di questa tripartizione, nel segno della centralità dell’Esecutivo e che il disegno di riforma costituzionale proposto dagli “eredi-al-quadrato” (di Mussolini e Berlusconi) pare echeggiare sonoramente quel programma.

Mi soffermo su una questione soltanto che ha proprio a che fare con l’indipendenza e l’autonomia della magistratura: indipendenza specialmente dal potere esecutivo, cioè dall’autorità politica. Indipendenza e autonomia da cui deriva la rilevanza costituzionale del Csm e che sono fondamentali condizioni per realizzare quell’altro principio che è l’obbligatorietà dell’azione penale, che tale è in quanto non può essere sottoposta a valutazioni di carattere politico, perché la politica, per quanto sia la forma più alta di carità, è pur sempre nutrita di consenso e il consenso si sa quanto sia una brutta bestia. Un precipitato di questi principi è che mai e poi mai l’attività giudiziaria di accertamento delle responsabilità penali deve avvalersi o comunque incrociare quella dei Servizi segreti, perché questi ultimi devono rispondere proprio all’Autorità politica (se rispondessero ad altri sarebbe eversione o alto tradimento).

Ma qual è la posta in gioco di questa impalcatura costituzionale? L’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Che a sua volta riflette quel generoso e ingenuo motto rivoluzionario: tutti gli uomini nascono liberi e uguali.

Ora, a meno di pensare che le barricate in piazza le abbiano fatte per conto della borghesia fin dal 1789 e che quello slogan sia servito soltanto a decollare un po’ di parrucconi per sostituirli con una nuova élite, dobbiamo chiederci quanto valga per noi repubblicani e democratici ancora oggi questo slogan e quanto riteniamo sia irrinunciabile fondamento della nostra convivenza, costi quello che costi. Direi che l’antifascismo al quale ci richiamiamo dovrebbe essere un valido indicatore sulla risposta da sottoscrivere.

Quando saltano indipendenza e autonomia della magistratura, quando in particolare l’azione penale viene sottoposta in un modo o in un altro alla volontà politica, anche attraverso illegali contatti tra attività giudiziaria e Servizi segreti, allora salta la Repubblica. Per come abbiamo cercato di edificarla dal 25 aprile del 1945. Ma non potrebbe essere proprio questo un filo rosso attraverso il quale elaborare un giudizio storico-politico, quindi non penalistico, delle vicende che più ci occupano in questi mesi – cioè il periodo ’89-‘94, le stragi e quanto emerso dai processi, fino alle motivazioni della Cassazione sul processo Trattativa che abbiamo letto in questi giorni?

Esiste infatti in tutta questa complessa e drammatica vicenda almeno un campanello d’allarme che segnala una anomalia di fondo che, quand’anche non integri una condotta penalmente rilevante (un reato), potrebbe integrare una violazione grave e pericolosa della Costituzione, in particolare di quel principio irrinunciabile che è l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Quale?

La sovrapposizione tra attività investigativa delegata dall’autorità giudiziaria ed esercitata dalla polizia giudiziari e attività di “intelligence”, che ispirati dal libro di Marco Mancini Le regole del gioco forse potremmo definire di “contro-spionaggio offensivo” delegata dall’Autorità politica ed esercitata da uomini (e donne) dei Servizi segreti italiani, a volte d’intesa con pezzi di magistratura, a volte a completa insaputa o addirittura con la chiara contrarietà di pezzi di magistratura.

Cosa ci dicono da questo punto di vista le traiettorie professionali di protagonisti assoluti di quella stagione come Arnaldo La Barbera, Bruno Contrada e Mario Mori (anche lui autore di una autobiografia)? Quanti altri casi di gestione “politica” di vicende criminali in quegli anni sanguinari? Se penso che anche una storia apparentemente lontanissima dalle bombe di Palermo, come l’omicidio a Torino del giudice Bruno Caccia nel 1983, è segnata dallo stesso tratto, immagino assai.

Forse è questo il senso amaro dell’ultima risposta di Ingroia, intervistato da Il Fatto Quotidiano, sulle motivazioni della sentenza di Cassazione sul processo Trattativa: “Errori ne avrà fatti anche lei?”, “Aver creduto che la Legge fosse uguale per tutti”. Forse è questo il senso da dare alla frase di Falcone, citata da Caselli nel suo ultimo libro, scritto con il figlio Stefano (Giorni memorabili che hanno cambiato l’Italia – e la mia vita): “Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa Nostra – per una evidente convergenza di interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi”.

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