Quando nel 1992 i carabinieri del Ros aprirono un dialogo con Cosa nostra avevano come obiettivo solo quello di far cessare le stragi. L’apertura di questa interlocuzione non ha provocato “una istigazione a minacciare lo Stato” nei ranghi della mafia. E dunque Totò Riina non decise di mettere altre bombe per lanciare un messaggio alle Istituzioni, solo perché si sentì rafforzato dal dialogo cercato dai militari: aveva già intenzione di mettere a ferro e fuoco il Paese. È questo uno dei punti fondamentali della sentenza della Corte di Cassazione sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Sono 95 pagine che il consigliere estensore Fabrizio D’Arcangelo ha scritto in quasi sette mesi. Tanto è passato da quando, il 27 aprile del 2023, la sesta sezione penale presieduta da Giorgio Fidelbo aveva messo un punto a una complessa vicenda processuale iniziata quasi 15 anni fa.

Le decisioni della Suprema corte – In pratica la Suprema corte aveva annullato senza rinvio le assoluzioni degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, che in secondo grado erano stati giudicati non colpevoli perché il fatto non costituisce reato. Per gli ermellini i carabinieri andavano assolti in via definitiva, ma per non aver commesso il fatto. Il fatto è il reato contestato, cioè la violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato: l’accusa per i militari era di aver trasmesso fino al cuore delle Istituzioni – nel dettaglio erano i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – la minaccia di Cosa nostra, cioè altre stragi e altri omicidi eccellenti se non fossero state allegerite le condizioni carcerarie dei mafiosi detenuti. Un reato che secondo i supremi giudici non è stato commesso da Mori e da De Donno, e per estensione anche da Subranni, che non aveva fatto ricorso contro la sentenza d’Appello. Se i carabinieri non hanno trasmesso la minaccia proveniente da Cosa nostra, allora la condotta dei mafiosi da consumata è diventata soltanto tentata: ecco perché la Suprema corte aveva riqualificato il reato per il boss corleonese Leoluca Bagarella e per Antonino Cinà, il medico di Totò Riina che aveva fatto da “postino” al papello, cioè la lista delle richieste avanzate dal capo dei capi in cambio di uno stop alle bombe. La riqualificazione del reato aveva fatto scattare la prescrizione (quantificata in 20 anni) delle condanne emesse in secondo grado a 27 anni per Bagarella e a 12 anni per Cinà. Per quanto riguarda Marcello Dell’Utri, accusato di aver trasmesso la minaccia mafiosa al governo di Silvio Berlusconi, la Corte si era limitata a far diventare definitiva l’assoluzione per non aver commesso il fatto, che era stata decisa in secondo grado e che la stessa procura generale aveva chiesto di confermare.

“Indizi insussistenti sui carabinieri” – La parte più delicata della sentenza, ovviamente, è quella relativa ai carabinieri. “Ritiene questa Corte che la motivazione della sentenza impugnata evidenzi la strutturale inidoneità della condotta degli ufficiali del Ros a integrare, già sotto li profilo oggettivo, una forma penalmente rilevante di istigazione o di determinazione alla commissione del reato di minaccia ad un corpo politico commesso dai vertici di Cosa nostra”, scrivono i giudici della Suprema corte. E per spiegare la decisione di optare per la più ampia formula di non colpevolezza, gli ermellini tornano indietro di trentuno anni. “Invero, la mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può ritenersi essere stata idonea ex se a determinare i vertici dell’organizzazione criminale a minacciare il Governo in quanto questo assunto, argomentato nella sentenza impugnata come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza”, si legge a pagina 79 della sentenza. Il riferimento è ai colloqui avuti da Mori e De Donno con Vito Ciancimino nell’estate del 1992. “L’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”. Dunque secondo la Suprema corte la decisione dei carabinieri di andare a parlare con Ciancimino non provocò in Riina la volontà di minacciare lo Stato con altre bombe. “Nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l’iniziativa degli alti ufficiali del Ros era, infatti, intesa non già a indurre Cosa nostra a rivolgere minacce al Governo – scrivono i giudici della Cassazione – bensì al perseguimento dell’obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se le eventuali condizioni poste da quest’ultima potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali. Nella loro azione, infatti, Mori, Subranni e De Donno miravano al contempo alla contestuale decapitazione dell’ala stragista o militarista mediante la cattura dei suoi esponenti, come di seguito avvenuto il 15 gennaio 1993 con l’arresto di Salvatore Rina. Vi è, dunque, per quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, un’insanabile contraddizione logica tra l’elemento soggettivo che animava i tre ufficiali del Ros nell’interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una obiettiva valenza agevolatrice della minaccia mafiosa della loro condotta”.

“Cosa nostra voleva già fare le stragi” – Per rafforzare il suo convincimento sui carabinieri che non hanno indotto Cosa nostra a organizzare altre stragi, la Cassazione sottolinea come Riina avesse già deciso di mettere a ferro e fuoco il Paese: “Le stesse sentenze di primo e di secondo grado, del resto, esprimono, non certo incongruamente, il convincimento che Cosa nostra, sotto la direzione di Salvatore Riina, sin dall’omicidio dell’On. Salvo Lima stesse realizzando una propria strategia terroristica, volta all’ottenimento di concessioni da parte dello Stato, e che, dunque, sarebbe proseguita, anche a prescindere dall’intervento degli imputati appartenenti al nucleo operativo dei Ros”. Secondo la Suprema corte “nelle condizioni di contesto descritte dalla sentenza impugnata, non è possibile affermare l’esistenza di un preciso rapporto di causalità tra l’azione dei pubblici ufficiali e la genesi del ricatto mafioso”: insomma non è provato che il dialogo coi carabinieri abbia provocato in Riina la decisione di alzare il tiro. È la famosa esclamazione “si sono fatti sotto“, che il capo dei capi avrebbe pronunciato alla presenza di Giovanni Brusca: secondo il pentito si riferiva proprio alle Istituzioni, nei panni dei militari. Ma per i giudici, “non è configurabile, sul piano logico, prima ancora che giuridico, l’istigazione o la determinazione di un proposito criminoso che è già in corso di esecuzione”. E ancora, sostiene la corte, “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può, pertanto, essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”.

“In Appello carenza di certezza dell’indizio” – I giudici, poi, smentiscono che il generale Mori avrebbe riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra – altre stragi se non si fossero migliorate le condizioni carcerarie dei boss detenuti – fino al cuore del governo, cioè all’allora guardasigilli Giovanni Conso, attraverso Francesco Di Maggio, che era il vicecapo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Secondo l’accusa era per questo motivo che a un certo punto il ministro della Giustizia aveva lasciato scadere più di trecento provvedimenti di 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Anzi, più che smentire, la Suprema corte boccia le motivazioni della Corte d’Assise d’Appello, accusata di aver “invertito i poli del ragionamento indiziario” in quanto “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio“. Secondo gli ermellini, in pratica, i giudici del processo di secondo grado non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”. A sostenerlo erano sia il sostituto procuratore generale della Cassazione che gli avvocati difensori: “L’argomento del ‘nessun altro avrebbe potuto‘ si rivela fallace sul piano logico e giuridicamente errato, in quanto la confutazione delle spiegazioni alternative di un fatto non può supplire alla radicale mancanza di prova positiva del fatto medesimo”. Secondo la Suprema Corte, i giudici dell’appello hanno commesso un errore a ritenere “che solo Mori potesse aver rivelato l’informazione relativa al ricatto mafioso e alla spaccatura in essere all’interno di Cosa nostra, senza aver previamente dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che questa informazione riservata non fosse previamente nota al Ministro, che costituisse patrimonio conoscitivo esclusivo” di Mori “e che non fosse pervenuta a conoscenza del Ministro per effetto di canali diversi ed autonomi“. Dunque è per questo che la Suprema corte ha deciso di assolvere i carabinieri con la più ampia formula possibile: “Pertanto, una volta escluso, in quanto non provato oltre ogni ragionevole dubbio, che gli ufficiali del Ros abbiano riferito la minaccia mafiosa ad esponenti dell’autorità di governo, dalla sentenza impugnata risulta che i medesimi si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla, né rafforzare l’altrui intento criminoso. Ogni forma di concorso penalmente rilevante degli imputati Mori e De Donno nel reato commesso dagli imputati appartenenti a Cosa nostra è, all’evidenza, insussistente”. La Cassazione conferma che “l’apertura di un dialogo con i vertici di Cosa nostra, come rilevato dalla sentenza impugnata, è stata molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence (pag. 2190 della sentenza impugnata)”, ma “tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o di agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare concorso nel reato di minaccia al Governo”.

“Forza Italia garantista, non minacciata dalla mafia” – Sulla figura di Dell’Utri, già assolto in Appello dall’accusa di aver trasmesso al primo esecutivo di Silvio Berlusconi le minacce mafiose, i giudici scrivono: “Entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi”. E ricordano come l’imputato sia già stato assolto in Appello per non aver commesso il fatto: “Secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con ‘intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.

Le critiche alle sentenze di merito: “Approccio storiografico” – Per il resto in vari passaggi i giudici della sesta sezione penale criticano le sentenze emesse dai loro colleghi della corte d’Assise e della corte d’Assise d’Appello. “Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio”, si legge a pagina 72 della sentenza. E ancora: “La Corte di assise di appello, dunque non ha rispettato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio nella sentenza impugnata, in quanto ha posto a fondamento della dimostrazione dell’avvenuta consumazione del reato di minaccia ai danni dei Governi Amato e Ciampi elementi di prova privi di adeguata efficacia dimostrativa, quanto all’avvenuta dinamica di trasmissione della minaccia da Mori al Ministro, e, al contempo, non ha dimostrato l’irragionevolezza delle ipotesi ricostruttive antagoniste prospettate dalla difesa sulla base delle prove acquisite al processo”. La Cassazione riconosce “l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito” ma poi aggiunge che “deve tuttavia, rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Tuttavia, anche quando oggetto del processo penale siano accadimenti di rilievo storico o politico, e, dunque, connotati da una genesi complessa e multifattoriale, l’accertamento del giudice penale non muta la sua natura, la sua funzione e il suo statuto garantistico, indefettibile sul piano costituzionale”. E ancora, si legge nelle motivazioni della Suprema corte “la trama di entrambe le sentenze di merito, pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia, monopolizzata dal tema dei contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del Ros e quelli della associazione mafiosa denominata Cosa nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo”. Secondo la Cassazione “tale marcata discrasia tra imputazione e oggetto principale dell’accertamento processuale ha, inoltre, determinato un’eccessiva dilatazione delle motivazioni delle sentenze, che hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione”.

B.COME BASTA!

di Marco Travaglio 14€ Acquista
Articolo Precedente

Falsi vaccini Covid, Madame e la tennista Giorgi verso il processo. I due medici imputati chiedono il patteggiamento

next
Articolo Successivo

“Bruciò vivo il fratello per incassare i soldi dell’assicurazione”: condannato all’ergastolo chef napoletano. Il Pm: “Come Caino e Abele”

next