Cinema

Gianni Di Gregorio e i suoi inimitabili vecchietti. “Matteo Garrone ipotecò la casa per produrre Pranzo di Ferragosto e la scena iconica di Gomorra l’ho scritta io”

di Davide Turrini

“In Italia si fa tutto più lentamente, ma se uno insiste alla fine ce la fa”. E se lo dice Gianni Di Gregorio, esordio folgorante alla regia a 59 anni nel 2008 con l’oramai cult, Pranzo di Ferragosto, bisogna fidarsi. Oggi, a 74 anni e al quinto film (Astolfo, 2022) in quindici anni di regia, Di Gregorio si presenta davanti al pubblico under 18 del Festival Youngabout di Bologna con tanta divertita sincera umanità e qualche sparuta gioviale certezza. Proprio nei giorni in cui il governo Meloni ha inserito nella legge di bilancio un tetto ai compensi di registi, attori e sceneggiatori da scorporare dal tax credit, il regista romano si fa una sonora e coinvolgente risata (in un’ora di chiacchierata se ne farà tantissime): “Un tetto? Ma io sono sempre stato uno da sottotetto (ride ndr). I miei film costano poco. Un milione e mezzo, due. Non mi è mai venuto in mente di proporre budget più alti, per carità, non so che reazioni avrebbe il mio produttore”.

Astolfo ha avuto pure distributori internazionali come il francese Canal+ …
“Il film è stato molto amato in Francia. Tendenzialmente tutti i miei film con vecchietti e vecchiette protagonisti hanno avuto mercato all’estero”.

Hai tempi e ritmi precisi nel costruire le tue storie. Sembri di quegli autori modello Nouvelle Vague: sempre una matrice precisa e poi tantissime piccole variazioni…
“Io sono sempre il perno narrativo centrale e poi cerco di distribuire, allargare al resto del cast. Mi sto però accorgendo con dolore che mi piacerebbe cambiare. Potrei avere un guizzo… ma non mi viene! (ride ndr)”.

In Astolfo ricrei spassosissime dinamiche di scontro/litigio comico tra i compari del protagonista…
“Eh sì, tra di loro c’è la naturalezza da vecchia commedia. Una storia sentimentale soltanto mi sembrava una pazzia, così con loro mi sono sentito più tranquillo (ride ndr).

La casa antica in montagna con le crepe ai muri e un vicino prete prevaricatore è una storia biografica…
“Sono nato a Roma come mio papà, ma la mia famiglia è di origine abruzzese, vicino Teramo. Siamo sempre stati in questa casa e lì ci è rimasto un pezzo di cuore. La casa ha resistito al terremoto del 2016, è agibile ma non ci posso ancora entrare. Poco tempo fa ho telefonato ad un amico e gli ho chiesto di avere notizie dal sindaco. “Digli a Gianni che voglio essere sincero: tutto è apposto”, ha detto il sindaco, “fra 5 anni cominciamo i lavori”. Ma io fra 5 anni non garantisco di esserci (ride ndr)”.

Quale tra i tuoi film ami di più?
“Lontano lontano. Sento che c’è qualcosa di bello che ha funzionato. E poi quegli attori: Ennio Fantaschini, Giorgio Colangeli, Roberto Herlitzka… Dei mostri. Ad essere sinceri il film nasce perché Matteo Garrone, un caro amico con il quale ho lavorato per anni, mi ha detto: visto che fai i film coi vecchietti perché non ne fai uno con un pensionato che vuole andare a vivere lontano dall’Italia? Ci ho pensato un anno poi m’è venuto in mente un amico, che è morto proprio mentre scrivevo il film. Un tipo di Trastevere, un mio coetaneo che stava sempre al bar e non faceva niente. Sua mamma aveva un banco di frutta e poteva ereditarlo, ma lui no, non faceva niente. Stava al bar, ascoltava tutti, era un saggio. Quando morì al funerale parteciparono duemila persone. Quando spiegai a Colangeli il tipo di personaggio mi disse: come faccio a fare uno che non fa niente?”

Va in giro per Roma con questa sportina di plastica con dentro la frutta…
“Eh sì, andava dal fratello al banco di frutta. Era un mistico. Non ha mai lavorato un giorno”.

Crei sceneggiature precise, un canovaccio o improvvisi molto?
“C’è sempre una sceneggiatura di ferro. Poi quando ci sono gli attori in scena gli dico anche di romperla. E loro all’inizio ti chiedono se possono farla in un modo, mentre alla fine del film fanno come gli pare. In Lontano Lontano la battuta finale del film non c’era, l’ha aggiunta Colangeli improvvisando. Non c’entrava niente (dice: “Non c’è nessuno a Terracina ndr”), ma ci voleva quella”.

Hai mai pensato di fare solo la regia di un film senza recitare?
“Ma si. Oggi vorrei proprio girare un film con un bimbo protagonista ma non me lo fanno fare. Io ho paura che la gente si stufi di me e che dica che faccio sempre lo stesso film o che sono un egocentrico. In realtà è un meccanismo che ha funzionato e mi ci trovo bloccato”.

Sarebbe molto pericoloso cambiare formula per il tuo produttore storico, Angelo Barbagallo…
“Me l’ha già detto (ride ndr). È la mia condanna fino alla morte”.

Quando ti è venuto in mente di fare il regista?
Per almeno vent’anni, tra metà ottanta e inizio duemila, ho scritto sceneggiature. Sui 50 anni scrissi Pranzo di Ferragosto, ma nessuno lo voleva realizzare. Era la storia di mia madre. Ci ho lavorato per anni. A un certo punto parlando con Matteo (Garrone ndr) ho detto ci provo, ma mancava il produttore. Lui allora fa: facciamolo con la mia società, Archimede srl, che era microscopica. Chiediamo i soldi al ministero, ce li danno, ma allo stesso tempo funziona che devi dare fidejussione. Matteo era bianco come un cencio ma ha firmato un’ipoteca sulla sua casa”.

Il film fece sfracelli di pubblico?
“In Italia guadagnò 4 milioni, nel mondo 11 milioni di dollari. Una specie di Kung Fu Panda”.

Al festival di Venezia c’erano le file fuori delle sale che lo proiettavano…
“Arrivammo col motoscafo e io cercavo di tenere in piedi queste vecchiette affinché non cadessero. Tra l’altro litigavano tantissimo tra di loro. I fotografi videro queste scene e lasciarono perdere Brad Pitt, per fotografare le vecchiette. C’era anche Mollica. Queste due si odiavano e hanno cominciato a litigare: eravamo in diretta al TG1 e si davano gomitate”.

Regista per caso dopo aver fatto l’attore e lo sceneggiatore…
“Il regista volevo farlo fin da piccolo, ma non ho mai avuto il coraggio. Feci la psicanalisi per questo. Dopo un annetto di sedute ho realizzato il primo film. Andavo dal noto Giovanni Jervis. Girato Pranzo di ferragosto mi vietò di tornare da lui”.

Di Gregorio attore.
Feci scuola di teatro, recitazione e regia teatrale, con Alessandro Fersen, una roba importante, ma a metà anni ottanta cominciai a scrivere.

E arriva Sembra morto…ma è solo svenuto (1986) di Felice Farina con Sergio Castellitto sia sceneggiatore che protagonista …
“Capii che Sergio era un talento totale. Veniva a scrivere, come fanno i grandi, faceva una cosa e se ne andava. Io abitavo in una monocamera vicino Campo de Fiori. Arrivò Sergio e io e Felice gli dicemmo che andava scritta una scena in cui doveva uscire sulle scale e fare una scenata contro i condomini. All’improvviso lui si alza, apre la porta di casa mia, e comincia a urlare “condomini pecoroni, mi fate schifo”. Splendido. Finì nel film”.

Non dirmi che campavi di sceneggiature…
“Facevo di tutto sui set, anche l’autista. Avevo una Ford vecchia da sei posti di mio padre e tutti i direttori di produzione mi volevano. Poi ho scritto programmi culturali, documentari in onda su Telemontecarlo. Mi adattavo a tutto. Scrissi pure I miti greci per De Crescenzo: lui me li raccontava e li mettevo su carta con tutto il suo spirito. Guadagnai tantissimo. Luciano abitava in un bellissimo appartamento ai Fori, a Roma. Mi aveva messo a lavorare in uno studio/appartamento sotto casa sua. Mi portava la pasta e il sugo”.

Devi però molto a Garrone…
“Lo conobbi perché ero in giuria al Premio Sacher. Matteo vinse con Terre di mezzo. Gli dissi: senti tu hai 20 anni meno di me, ma se fai qualcosa ti vengo ad aiutare. E lui mi chiamò per Estate romana e poi L’imbalsamatore e Primo amore. Oggi ci sentiamo ogni tanto, ma se c’ha un dubbio mi chiama. Io pure”.

Erano film molto artigianali..
“Ti dico una cosa che non sa nessuno. I titoli di testa dell’Imbalsamatore li abbiamo girati io e Matteo da soli. Succede che si mette a piovere, i tecnici mettono il panno sulla macchina da presa e tutti si dileguano. Io e Matteo rimaniamo da soli. Ci sono queste gocce rade e lui fa: quanta pellicola rimane? Io: poca roba, tre quattro minuti, pelo pelo. Sai che c’è?, fa lui, proviamo a farla. E allora lui gira questa panoramica non prevista che dal mare arriva alle torri e io di fianco a lui a contare i secondi”.

Modelli di riferimento per il tuo cinema?
Non ho la visionarietà di Matteo e mi devo attaccare al reale. Mi butto sul quotidiano perché li si può scavare su quella malinconia, su quel primo piano malinconico che cerco. Io di fondo sono un rosselliniano. Paisà prima di tutto. La presa di potere di Luigi XIV lo vidi con Rossellini in sala uscito da scuola. Quando il Centro Sperimentale fu occupato dai capelloni lui che ne era il direttore andò lì a parlare. Un gigante.

Nei tuoi film usi la comicità in maniera esemplare…
Quando andavo da Fersen, tutti facevano tutto. Sul Macbeth è cascato l’asino. “Di chi sono queste mani sporche di sangue?”. Andavi lì e la recitavi. Vado io, recito e tutti ridono. Fersen mi spegneva pure la luce. Alla fine dell’anno mi disse: tu sei un comico, non puoi fare Shakespeare. Ma usalo come una dote, rendila una tua forza.

A scrivere Gomorra, il film, c’eri tu, Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Garrone, Roberto Saviano. Sei sceneggiatori uno diverso dall’altro…
“Solo la follia di Matteo può avere messo insieme questi qui (ride ndr). Gomorra fu una sfida improvvisa. Intanto, io andavo da lui la mattina presto alle 7. I napoletani arrivavano tardissimo (ride). Ho perso il treno, dicevano. Si iniziava alle 10, sempre. C’era anche Saviano, veniva con la scorta. Quello che scriveva sul serio tra persone blateranti era Gaudioso.

All’epoca Saviano era nell’occhio del ciclone…
La scorta lo lasciava in casa da solo per qualche ora. Una mattina suonarono alla porta. Panico. Tutti si buttarono sotto al divano. Matteo disse con me: vai tu, sei il più vecchio. Andai, ed era il postino, ma con una faccia da delinquente, una busta del pane in mano e soprattutto non era vestito da postino. Ho pensato: è finita. E lui: dottò me regge er pane?”

Alla fine avete creato una drammaturgia dal niente…
“Dissi a Saviano: ma na scaletta niente? (ride ndr). Ho una cosa da dire importante”.

Prego.
“C’era la storia dei due ragazzi nel film che devono provare le armi. Tutti parlavano, mi alzai io, serio e dissi: No devono provarle al fiume, in quel postaccio, il Volturno, un fiume pieno di tazze del gabinetto. Devono stare lì in mutande, perché si sono fatti il bagno. E non facciamo arriva un mitra del cinema, ci vuole un vero kalashnikov. E Matteo disse a Gaudioso: scrivi, scrivi. È diventata la scena più iconica di Gomorra”.

Gianni Di Gregorio e i suoi inimitabili vecchietti. “Matteo Garrone ipotecò la casa per produrre Pranzo di Ferragosto e la scena iconica di Gomorra l’ho scritta io”
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