Alle colline delle Langhe sono affezionato, ci andavo da giovane per la grappa di Levi a Neive e agli albori di Slowfood, per quello che allora si chiamava Cantè J’euv: mi ero trasferito da Torino nel Monregalese, ero obiettore di coscienza, in testa le idee di Nuto Revelli con cui ebbi la fortuna di dialogare.

La vocazione culturale, agricola ed ecologica della zona mi era già chiara; impressione rafforzata, qualche anno più tardi, da un episodio altamente simbolico legato alla tragedia del Vajont, del quale dirò.

Quel che mi preme segnalare, oggi, è l’ennesima minaccia di uno scempio ecologico: vogliono realizzare un deposito di rifiuti pericolosi vicino a Clavesana, lungo il fondovalle Tanaro, tra Carrù e Farigliano, vicino al comune di Piozzo. Un’azienda ci vorrebbe stoccare oltre 100 categorie di rifiuti anche altamente tossici (mercurio, cadmio, amianto…), batterie al piombo o mercurio, al nichel-cadmio, pitture e vernici di scarto e via dicendo… Insomma, uno spot al luminoso futuro post industriale che ci aspetta, che fa riflettere anche sulla tanto magnificata produzione di auto elettriche.

Duecentomila tonnellate di rifiuti l’anno vuol dire diecimila camion su e giù lungo il Tanaro e i suoi bellissimi calanchi, in territorio per lo più agricolo, noto per la produzione di vino, carne di razza piemontese, nocciole; ricco di sorgenti sotterranee e attraversato da un acquedotto che disseta 200 mila persone. Un comitato si oppone: “L’impianto – dice – metterebbe a rischio la comunità e comprometterebbe in modo irreversibile l’immagine, la vocazione e l’economia del territorio, nelle Langhe”.

Siamo alle solite: che tipo di “sviluppo” vogliamo? Ormai non si può pronunciare il termine senza rabbrividire. “I paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato sono Patrimonio UNESCO!” ricorda il Comitato, sottolineando il rischio di incendi e dispersione di fumi tossici.

La zona inoltre è in un meandro del Tanaro e a pochi metri da 4 centri abitati, che negli ultimi decenni hanno lavorato molto per risollevarsi dall’alluvione del ’94, puntando su economie virtuose: siamo nella DOCG del Dogliani, nella DOCG Alta Langa, nella IGP nocciola Piemonte, nell’area di allevamento della razza piemontese. La Cantina Clavesana ha duecento associati, è punto di riferimento per tutto il territorio. Proprio lì vicino, a Dogliani, ero andato a metà degli Anni Novanta, su invito di Aldo Grasso, per assistere nella sede dell’Enoteca a una rappresentazione intitolata Vajont, di un certo Marco Paolini, allora quasi sconosciuto. Ci andai prendendo una “corta” dal giornale La Stampa, per cui lavoravo nella redazione culturale ed ero appassionato di ecologia e la cultura contadina; andai anche perché nei luoghi del disastro, in Veneto, ero stato da bambino con i parenti, vidi le campane della chiesa sul greto del torrente e le macerie di Longarone.

Tout se tient, c’è un filo che unisce le cose che contano, nelle nostre vite e nella memoria. Al Vajont tornai il 9 ottobre 1997, chiamato dal compianto amico-collega Renzo Franzin, quando Paolini, semi-sconosciuto, andò in onda in diretta su Raidue sotto lo scudo enorme e minaccioso della diga. E io ero lì, in quel teatro costruito a ridosso della diga, precisamente sul mucchio di terra scesa dal monte Toc, dove un tempo c’era l’acqua. L’immensa e prevedibilissima frana sollevò un’onda immensa, che si schiantò a valle e spazzò tutto, uccise quasi duemila persone. Avevo insistito con Gad Lerner, allora vicedirettore, e scrissi un articolo che purtroppo non uscì… In gergo si dice “prendere un buco”.

Questo accadde, si parva licet. Così scrissi uno dei miei primi racconti, che piacque molto a Oreste del Buono e che raccolsi in un’antologia (uno di loro vinse persino un premio letterario, il Teramo, con Pontiggia in giuria. Avevo letto Sulla pelle viva (1983) della giornalista bellunese Tina Merlin e ascoltato alcuni protagonisti, tra cui un’anziana signora che da anni per protesta non pagava più le bollette dell’Enel (erede della Sade, la ditta che provocò il disastro). Così stava al freddo, le tagliarono la corrente elettrica.

Insomma, la cecità (quasi sempre a fini di lucro) mi scandalizza sempre, e anche oggi che ricordiamo, sessant’anni dopo, la frana del 9 ottobre 1963 sul Vajont, per amore di Langa torno a solidarizzare con chi ha a cuore il territorio. Possibile che “il grande cuore dell’Italia” sia sempre pronto a far collette (ben vengano) e a piangere, ma dopo i disastri; mai a indignarsi prima, per prevenirli?

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