Qualunque sia il dio che ti fa inginocchiare lo sguardo al cielo, c’è un principio che è capostipite di tutti i credo e di tutti gli uomini in quanto uomini. Un cardine di ogni civiltà, smaltato nelle sacre scritture del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’islam. Risale infatti a 2050 anni fa la massima, che gli ebrei imboccano al rabbino Hillel, «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va’ e studia.»

L’Islam abbraccia il concetto e lo volge in positivo, iscrivendolo tra i detti di Maometto che disegnano la “Sunna”, modello di condotta dei “sunniti” a cui appartiene Hamas: «Desidera per il tuo prossimo ciò che desideri per te stesso.»

Nessuno desirerebbe di dover evacuare casa sua tra le macerie; nessuno desirerebbe vedere sua figlia inghiottita da due terroristi sua una motoretta. E così a ritroso, per anni e violenze addietro, un colpo preso e un colpo inferto tra intifade e colonie e sangue che ha il colore del sangue opposto.

Ora, dopo la tempesta di Hamas del 7 ottobre, Israele rivendica il diritto alla violenza, il suo turno a far male, il più male possibile. Aspettando l’invasione, su Gaza già una grandine di 6.000 bombe.
Eppure, per quanto dolore potrà conficcare, quello di Israele non sarà mai il colpo finale. A nord della Striscia sarà soltanto stretto l’ultimo e più strenuo e più scintillante anello della catena del risentimento che lega due popoli e due mondi.

Chi vive(va) a Gaza? Bambini e adolescenti, soprattutto. E non è un dato per impietosire ma cifra numerica: dei 2.166.269 abitanti della Striscia censiti un anno fa, la maggioranza ha un’età molto bassa, che fa della popolazione di Gaza una delle più giovani del planisfero arabo. Crescono accoccolati sulle storie dei loro nonni e dei loro bisnonni, arrivati dal mare dopo la grande cacciata da Giaffa, il porto più antico del mondo oggi ingurgitato dalla avveniristica Tel Aviv. Crescono considerandosi come abitanti stessi di Giaffa, che non hanno visto mai ma a cui ambiscono tornare. Crescono sentendosi rifugiati; cresceranno sentendosi ora come rifugiati dei rifugiati, con il nuovo esodo imposto da quel popolo che l’esodo lo ha scritto nella Bibbia. Cresceranno con il torto, la rabbia e l’anello che si stringe.

Va avanti così, sempre: ad ogni attentato palestinese un giro di vite israeliano, ad ogni giro di vite israeliano nuova rabbia palestinese. Così si gonfia Hamas, così si inturgidisce la politica di Netanyahu, così 26 coltellate uccidono un bambino negli Usa perché palestinese, così un pazzo a Bruxelles spara a due svedesi.

Con l’imminente invasione, Israele si prepara a ferire il suo nemico cosciente così di alimentarlo, proseguendo un duello di interessi che favorisce chi ha interessi nel duello. I civili, a migliaia, come avanzi.
Per vincere davvero questa guerra servirebbe non sparare. Servirebbero l’altezza morale della cedevolezza, armare il disarmo, «tutta la Torah» di Hillel e «la pace su di voi» del saluto islamico.

Servirebbe che il popolo ebraico ricordasse che il “mai più” dell’olocausto non è “mai più a me”. Servirebbe che i palestinesi combattessero il terrorismo e gli ebrei il sionismo estremista. Negli Usa, “Jewish Voice for Peace” è un’organizzazione di attivisti ebrei che dall’indomani degli Accordi di Oslo chiede di fermare il genocidio palestinese: non è mai stata ascoltata. Oggi Israele avrebbe l’occasione per rinunciare alla vendetta e spezzare la catena e così vincere: non lo farà, non conviene.

Sulle pagine de La Stampa lo scrittore israeliano Roy Chen ha detto che “ci sono troppi perdenti in questa storia. C’è troppo Dio e troppo Allah”. Per quanto l’affermazione sia fulminante, io credo che nessuna traccia divina sia rimasta dietro i feticci di dio e di allah. E che in tutto ciò ci siano fin troppi vincitori.

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