Se esci da New Gate, lasciandoti alle spalle il quartiere cristiano, ed entri in città nuova passando tra l’imponente bianco del Notre Dame Center a destra, e gli spazi ariosi e moderni della City Hall e del Municipio sulla sinistra, verso l’Italian Hospital con la sua copia della Torre di Arnolfo, ad un certo punto cominci ad accorgerti che le cose intorno a te stanno cambiando.

Cominci a vedere sempre più haredim, non così frequenti in altre zone della città nuova – cappotto lungo nero, cappello, i lunghi ricci ai lati del viso; sempre meno cellulari, e quelli che vedi sono vecchi modelli, tutti rigorosamente senza internet. Una delle cose che ti colpisce per prima, molto tenera, sono questi bambini, anche di quattro, cinque anni, che camminano da soli, mano nella mano, con i loro bei ricci, la kippah e le frange – le tzitzit – che escono dalle loro camicie bianche.

Anche i negozi sono diversi: diventano sempre di più quelli che straripano di ritratti incorniciati di rabbi e maestri d’Israele. E più ti inoltri, più ti accorgi che sei rimasto solo tu a non vestire come loro, e se ne accorgono anche loro: lo noti presto; te lo fanno notare. Gli uomini da un lato, le donne dall’altro, senza correre il rischio di incrociarsi. Alle pareti delle case, sulla strada, manifesti in ebraico o in yiddish – l’unica fonte di informazione: qui non ci sono giornali, tanto meno televisione. L’unica cosa comprensibile ad uno straniero, in inglese, l’invito, a caratteri cubitali, non gentilissimi, a non andare in giro «in immodest clothes» e a non disturbare la santità del luogo.

Sei arrivato a Mea Shearim, «cento porte», in ebraico. Forse qualcuno la conosce per la fortunata serie di Netflix, Shtisel, alla sua terza stagione, che ne ha restituito un ritratto quasi dolce. Si tratta del secondo insediamento urbano costruito al di fuori delle mura della Città Vecchia, nel 1874: c’era ancora l’Impero Ottomano, che crollerà nel 1917; 46 anni prima del Mandato britannico; 74 anni prima della nascita dello Stato d’Israele. (Dunque, c’erano ebrei a Gerusalemme anche prima del 1948, e vi vivevano pacificamente, nonostante un potere politico islamico. Queste cose qualcuno sembra non ricordarle).

Dal 7 ottobre scorso, quasi ogni giorno, gli ebrei ultraortodossi che vivono in quel quartiere scendono per le strade, con le bandiere della Palestina – «la bandiera di Mea Shearim», la chiamano –, contro il governo dello Stato d’Israele. I giornali non ne parlano molto, ma su Twitter – e probabilmente anche su altri social – si trovano molti video: i bambini scandiscono lo slogan “Sì giudaismo, no sionismo”; qualcuno si scaglia contro i soldati chiamandoli “Hitler”; certe volte si degenera in violenza, con i soldati israeliani che non si trattengono.

Su un account Twitter legato a Mea Shearim, un rabbino spiega in un video che «uccidere, depredare ed occupare altri territori o reprime un intero popolo è del tutto vietato dalla religione giudaica». Beninteso: nulla di più lontano, nelle mie intenzioni, dal voler esprime un giudizio di valore su queste manifestazioni. Per esser il più chiari possibile: gli ultraortodossi di Mea Shearim non hanno alcuna ragione nel negare il diritto di esistere dello Stato d’Israele, che invece è punto fermo irrinunciabile. E, d’altra parte, un po’ inquieta e rischia di non promettere nulla di buono il motivo che li determina verso questa posizione: che, cioè, nessuna autorità umana possa ristabilire il regno d’Israele, se non il Messia quando tornerà nella gloria.

Non mancano, infine, altri elementi assai disturbanti, se non inquietanti, come una certa strumentalizzazione dei bambini che appare subito evidente nei video che si trovano on line delle manifestazioni.

Ma Mea Shearim e le manifestazioni di questi giorni aiutano a mettere a fuoco, se ce ne fosse bisogno, alcune cose che in questi giorni rischiano di perdersi, nella generale mancanza di lucidità che una violenza così grande inevitabilmente innesca.

La prima cosa è che non vi è coincidenza inscindibile tra sionismo (e neanche tra causa dello Stato d’Israele) e religione ebraica. Mea Shearim lo manifesta in modo eminente, quasi violento, ma chiunque ha contatti con persone che vivono in Israele sa bene che molte critiche alla politica d’Israele vengono (anche) da ebrei osservanti. È un punto importante questo, per evitare che si formi (o si rafforzi) la convinzione di una guerra di religione, che purtroppo già serpeggia, e che alcune parti del fronte radicale islamico hanno interesse a far passare.

Il mondo dell’ebraismo è immensamente composito, forse più di quanto avvenga all’interno di altre confessioni religiose. Questo dovrebbe far riflettere sul disegno politico di identificare lo Stato d’Israele come la «nazione d’Israele» di biblica memoria e messianica vocazione. (È del 2018 la legge, tanto discussa, che dichiara quello Stato come «la casa nazionale del popolo ebraico»). Un disegno, appunto, tutto politico, che della religione si serve come strumento di legittimazione, e niente altro.

D’altronde, se gli equilibri di questo universo così composito sono arrivati all’esasperazione odierna, i responsabili hanno nomi e cognomi, e sono quelli della disastrosa politica israeliana degli ultimi anni.

La Mishnah, uno dei testi fondamentali dell’ebraismo, recita: «L’uomo viene condotto sul cammino su cui desidera procedere». Quasi che ciascuno sia portato agli estremi delle proprie scelte, anche negative, perché ne capisca e ne viva così, fino in fondo, le conseguenze. Anche questa volta, tutte le parti in gioco sembrano essere trascinate sul cammino su cui esse stesse hanno desiderato procedere ed esse stesse hanno intrapreso. Come per drammatica inerzia.

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