Un deficit/pil ben più alto del previsto a causa della crescita economica stentata: fino a due giorni fa si ipotizzava una “linea rossa” al 4%, in realtà si arriverà al 4,3%. La necessità, di conseguenza, di una trattativa con Bruxelles che chiedeva di ridurre il disavanzo in maniera decisa. E nonostante questo una manovra per il 2024 avara, destinata a scontentare i partiti di maggioranza perché non consentirà di mantenere molte promesse fatte agli elettori: da quota 41 per tutti alla flat tax incrementale per i dipendenti, passando per le pensioni minime a 1000 euro e lo stop al superbollo auto. È la strada senza uscita in cui si ritrova il governo di Giorgia Meloni alle prese con la sua prima “vera” legge di Bilancio, posto che i contenuti di quella per il 2023 sono stati in gran parte dettati dall’emergenza del caro energia o ereditati dai predecessori. La premier lo sa bene: non a caso, stando alle veline di Chigi, durante il consiglio dei ministri che ha approvato la Nota di aggiornamento al Def ha dichiarato che “il nostro scopo non deve essere quello di inseguire il consenso”.

Il quadro macroeconomico disegnato dalla Nadef conferma i timori che il titolare dell’Economia Giancarlo Giorgetti esterna da settimane. Tra frenata globale, spinta dei bonus edilizi che si affievolisce e impatto del Pnrr al palo, la previsione di aumento del pil reale nel 2024 è stata limata dall’1,5% del Def di aprile a +1,2% in termini programmatici (cioè tenendo conto dell’impatto positivo atteso dalla manovra stessa). Comunque molto ottimistico, considerato che Ocse e Ue puntano su +0,8. Il rapporto tra deficit e pil a bocce ferme è salito di conseguenza dal 3,5 al 3,6% dimezzando a meno di 2 miliardi lo spazio di bilancio su cui il Mef contava la scorsa primavera. Solo per replicare il taglio del cuneo fiscale già in vigore, come molti esponenti di governo hanno garantito, servono però 11 miliardi al netto delle maggiori entrate tributarie. Per l’accorpamento di prima e seconda aliquota Irpef, ventilato dal viceministro Maurizio Leo che però è stato molto cauto sulla possibilità di realizzarlo nel 2024, ne andrebbero messi in conto 4. E al momento le altre fonti di copertura sono lontane dall’arrivare a quota 10 miliardi mentre la spending review latita.

Risultato: per far tornare i conti non resta che alzare l’asticella. Fino al 4,3%, appunto, in modo da assicurarsi quasi 14 miliardi – 0,7 punti di pil appunto – che dovranno bastare per coprire più di metà – quasi due terzi – di una manovra risicatissima. Più vicina ai 20 miliardi che ai 30, contro i 35 dello scorso anno. Intanto il percorso di discesa del debito/pil, più basso rispetto al Def grazie alla revisione al rialzo del pil comunicata da Istat e nonostante il peso del Superbonus, diventa quasi impercettibile: dal 140,2% del 2023 al 140,1 del 2024. Solo 0,1% in un anno. Per arrivare poi al 139,6% nel 2026.

I rischi all’orizzonte sono tanti. In termini di credibilità sui mercati per un esecutivo che dal suo insediamento, archiviati gli slogan bellicosi da campagna elettorale, rivendica la virtù della “responsabilità” e prudenza sui conti. In termini di rapporti con la Ue: un nuovo scontro è assicurato dato che, in vista della fine del “periodo di grazia” sull’applicazione del Patto di stabilità ora in fase di riscrittura, a luglio ha chiesto di “migliorare il saldo strutturale“, cioè l’indebitamento al netto di misure temporanee e una tantum, di almeno lo 0,7% del Pil. E in termini di consensi: perché – comunque – ci saranno meno risorse da spendere rispetto a un anno fa: all’epoca tra via XX Settembre e Chigi si decise di portare il deficit/pil al 4,5% dal 3,4% tendenziale, ricavandone una ventina di miliardi ma rispettando comunque i dogmi dell‘austerity visto che il rapporto migliorava di molto rispetto al 2022 quando si era assestato al 5,6%.

Un nodo ulteriore riguarda la revisione del disavanzo 2023 alla luce dell’attesa decisione di Eurostat sulla contabilizzazione dei crediti fiscali da bonus edilizi, arrivata martedì. L’ufficio statistico europeo, come da attese, ha spiegato che lo stop a cessione dei crediti e sconto in fattura deciso a febbraio dal governo Meloni è stato, viste le deroghe concesse a chi aveva già avviato i lavori, del tutto inefficace nel ridurre l’impatto immediato sul deficit. Gli sconti fiscali legati al Superbonus generati in corso d’anno al momento restano “pagabili”, vale a dire che vanno contabilizzati come spese appena si generano. Questo, complice una crescita limata a uno striminzito 0,8%, fa sì che nella Nadef il deficit/pil 2023 voli al 5,3%. Un numero che finirà sotto i riflettori la prossima primavera quando, archiviata la clausola di salvaguardia decisa durante la pandemia, la Commissione europea ricomincerà ad avviare le procedure per disavanzo eccessivo proprio sulla base dei conti 2023.

Nel frattempo entro fine anno i 27 Paesi membri dovrebbero scongiurare il rischio che si torni al vecchio Patto trovando una posizione comune sulla riforma. Il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni, con cui la leader di FdI si è messa in rotta accusandolo di non aiutare l’Italia su vari dossier, va ripetendo che “non c’è alcuna possibilità di tornare a vecchie logiche di austerità”. Il punto di partenza però è la proposta avanzata dalla Commissione stessa lo scorso autunno, che prevede percorsi di aggiustamento personalizzati e potenzialmente meno draconiani di quelli attuali ma anche una sorta di commissariamento della politica di bilancio degli Stati ad alto debito.

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