Quando Enzo Jannacci era vivo era adorato dai suoi fan, ma non apparteneva al gruppo dei geni assoluti del cantautorato italiano come De André o De Gregori. Qualcuno considerava un limite il suo ricorso continuo al dialetto, il riferimento a situazioni e toponimi difficilmente comprensibili per chi non avesse vissuto a Milano, come il viale Forlanini del barbone o la fiera dove un ingenuo giovanotto si era fatto fregare diecimila lire dalla ragazza di Rogoredo. Qualcun altro confondeva la superficialità con la sublime leggerezza jannacciana o con la straripante passione per il nonsense. Altri ancora consideravano la sua capacità di alternare toni profondamente tragici a momenti esilaranti, o di mescolarli, come l’assenza di una linea poetica coerente.

Con tutte queste riserve, quando Enzo se ne andò dieci anni fa ho temuto che la sua arte musicale e letteraria finisse un po’ ai margini, dimenticata, amata solo dai suoi irriducibili fan, ormai di una certa età. Invece è accaduto il contrario. Di Jannacci si è parlato con ammirazione, con entusiasmo, più dopo la sua scompara che prima. Si dirà che questo della riscoperta è un fenomeno tipico della cultura italiana, che ha riguardato altri artisti – cantanti, attori – un fenomeno non privo di un pizzico di ipocrisia. Ma non è del tutto vero. Nel caso di Jannacci il merito del suo ritorno sulla scena, oltre che del figlio Paolo, è di alcuni registi.

Ha cominciato qualche anno fa Ranuccio Sodi con un bel documentario trasmesso da Rai 5, Lo stradone col bagliore; ora è la volta di Giorgio Verdelli con il suo Enzo Jannacci. Vengo anch’io, presentato a Venezia e passato in questi giorni nelle sale.

Ranuccio Sodi ha costruito un ritratto intimo, molto personale, persino sofferto di Jannacci, a cui era legato da profonda amicizia; Verdelli ha seguito una strada diversa. Al di là delle testimonianze, dei racconti e delle analisi di Vecchioni, Abatantuono, Bisio, Vasco, Dori Ghezzi, Cochi Ponzoni, Paolo Rossi, Zavattini, Frassica, Guccini, Paolo Conte e del coup de theatre finale di Renzo Arbore, tutti interventi ricchi, pertinenti, mai verbosi, spesso commoventi, il vero protagonista del film è un altro. Sono proprio le canzoni, le grandi belle canzoni di Enzo. Anzi, per essere precisi, non solo le canzoni in sé, ma la loro esibizione, in linea con un punto di vista caro a Verdelli che all’aspetto delle esibizioni dal vivo di Jannacci ha già dedicato un programma di Radiodue realizzato con Gianfranco Valenti e messo in onda da Raiplay.

Qui non c’è solo il vivo: c’è tanta televisione, tante registrazioni in studio, tanti pezzi rari come il Prete Liprando allo Zelig che Bisio cita come irreperibile e puntualmente il film propone, insieme a numerosi altri filmati sconosciuti o dimenticati, alcuni inediti, tutti sorprendenti. E allora via, con un’ora e mezza di godimento passando dalle scarpe del tennis (“del” con la preposizione articolata, perché il tennis è un mondo, spiega Jannacci con uno strepitoso tocco filologico) alle assurdità di Silvano, dal dramma di Vincenzina all’avventura chapliniana del palo della banda dell’Ortica, dalle malinconie rinnegate del “me indiriss” alla speranze di vivere ancora dei momenti belli, come quelli in cui vince il Milan. E tra tutte queste performance, una ti lascia a bocca aperta: quella di Milva che con Enzo in studio prova Per un basìn, la più bella canzone di Jannacci (a mio parere, che non conta nulla), una canzone che oggi nessuno canta più, chissà perché…

Il film di Verdelli a Venezia era fuori concorso, altrimenti una coppa Volpi per la miglior interpretazione a Milva ci stava proprio.

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