A quale America parlò, in quel 28 agosto del 1963, il reverendo Martin Luther King? A chi presentò il suo sogno – I have a dream… – di eguaglianza nella libertà? Chi erano “i figli di chi era stato schiavo ed i figli di chi aveva posseduto schiavi” che MLK sognava di vedere seduti assieme – liberi entrambi perché entrambi finalmente eguali di fronte alla legge, come sempre erano stati di fronte a Dio – intorno al “tavolo della fratellanza”?

Per rispondere occorre, ancora una volta, fare dei passi all’indietro. Molti passi, tanti quanti ne occorrono per ritornare agli anni che seguirono la Guerra Civile e la Emancipation Proclamation di Abraham Lincoln, l’atto che – nel 1863, 244 anni dopo l’arrivo del primo africano in catene e 87 dopo la Dichiarazione di Indipendenza – finalmente aboliva la “istituzione peculiare” della schiavitù negli Stati Uniti d’America. E, insieme i pochi, pochissimi passi che separano lo storico discorso di Martin Luther King dagli eventi che, nella primavera di quel medesimo anno, s’erano dipanati in quel di Birmingham, in Alabama.

La Guerra Civile – scoppiata nel 1861 non tanto perché gli Stati del Nord volessero abolire la schiavitù, quanto perché quelli del Sud la schiavitù volevano espandere – e la conseguente Proclamazione di Emancipazione, avevano portato, dopo il 1865, ad alcuni indispensabili cambiamenti costituzionali (il tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo emendamento), nonché all’apertura d’un processo politico (la Reconstruction, ricostruzione) che di quei fondamentali cambiamenti doveva essere la pratica garanzia in virtù della presenza militare dell’esercito federale negli Stati ex-schiavisti.

I neri avevano, sulla carta, conquistato la libertà e tutti i diritti di cittadinanza. E la storia ci racconta come di quella libertà e di quei diritti avessero, in quei primi anni di “ricostruzione”, fatto buon uso. Votavano, gli ex schiavi. Votavano ed eleggevano i propri rappresentanti nelle istituzioni di una democrazia che, nata proclamando che “all men are created equal”, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, si era, in apparenza, finalmente rincontrata con se stessa. Erano almeno 1.500, alla fine del 1872, gli afro-americani eletti nelle varie assemblee degli Stati del Sud… Fast forward: novanta anni dopo, nel 1962 – e meno di un anno prima della grande adunata davanti al Lincoln Memorial e del “I have a dream” – i neri registrati come elettori erano, in quegli stessi Stati, meno del 10 per cento degli aventi diritto. Che cos’era accaduto?

Era accaduto che la Ricostruzione non era stata che una parentesi. E una parentesi di fatto molto più breve di quella che, per gli annali, fu la sua durata ufficiale (dal 1866 al 1877, quando, con il definitivo ritiro delle truppe federali, si concretizzò il compromesso seguito alle molto contrastate presidenziali del ’76). Una parentesi violentemente chiusa, nel libero agire delle milizie della “supremazia bianca” (è nel 1865 che, a Pulansky, nel Tennessee, viene fondato il Ku Klux Klan), con un susseguirsi di massacri e linciaggi che, protetti (quando non direttamente promossi) dalle autorità locali – e molto cristianamente definiti the Redemption, la redenzione – facevano da scudo alla creazione d’un rigido sistema di segregazione razziale, informalmente chiamato Jim Crow. Un sistema apertamente, immoralmente anticostituzionale che, tuttavia, era stato costituzionalmente sancito nel 1896 da una sentenza della Corte Suprema: la Plessy vs. Fergusson che il Jim Crow aveva legalizzato sulla base del principio separated but equal, separati ma uguali. Laddove, ovviamente, la separazione era un dato di fatto e l’eguaglianza nulla più che una burla crudele.

Era ancora questa America – separata e ferocemente diseguale – quella che, il 28 di agosto, ascoltava le parole di Marin Luther King. Ma era anche un’America finalmente davanti allo specchio. Solo qualche mese prima, in quello che era stato chiamato “Project C” – C come Confrontation, confronto – la Southern Christian Leadership Conference (Sclc) aveva deciso di portare la battaglia per i diritti civili nella più ferocemente e ostentatamente segregata delle città americane: Birmingham (o “Bombingham”, come la chiamavano per la frequenza con cui bombe incendiarie venivano lanciate contro le chiese e i locali frequentati dai neri), in quello Stato dell’Alabama il cui governatore, George Wallace, proprio questo Segregation today, segregation tomorrow, segregation forever” – aveva dichiarato il giorno del suo insediamento. C’erano stati cortei – rigorosamente non-violenti come voleva il credo di Martin Luther King – e manganellate a raffica. C’erano state marce pacifiche e c’erano stati i cani lanciati contro i manifestanti da Theodophilous Eugene “Bull” Connor, il Commissioner of Public Safety della città, destinato ad entrare nella storia come un simbolo di sopraffazione e, per contrasto, anche delle buone, sacre ragioni dei sopraffatti. C’erano stati sangue e arresti. Tra gli altri, anche quello del medesimo Luther King che, da prigioniero, aveva scritto la sua famosa Letter from a Birmingham Jail, un appello che, rivolto in particolare al presidente John Kennedy, sottolineava la non procrastinabilità della giustizia reclamata dai manifestanti. Ma soprattutto c’era stato l’incontro, visuale e sostanziale, tra tutto questo e il cosiddetto “villaggio globale”, la nuova, universale potenza dei mass media.

“All’inizio neppure ce n’eravamo accorti – ha a suo tempo raccontato il senatore John Lewis, deceduto due anni fa, un altro protagonista di quei giorni che da quei giorni era uscito con la testa rotta. Quella che stavamo guardando non era, pensavamo, che Birmingham nella sua più assoluta normalità. Eugene “Bull” Connor, bastonate, idranti e cani. Questo vedevamo noi. Ma sfortunatamente (per Bull Connor e per George Wallace n.d.r) questo era anche quello che stava vedendo il mondo…”.

Poche settimane dopo, l’11 giugno, nel celebrare il centenario della Emancipation Proclamation, John Kennedy mise da parte ogni prudenza politica – prudenza più che spiegabile considerato che proprio il suo Partito Democratico era, al Sud, l’architrave politica della segregazione – e denunciò, con parole inequivocabili, la insostenibile immoralità del Jim Crow, la sua intrinseca e ormai intollerabile natura “anti-americana”.

Fu sull’onda di quella svolta che, il 28 di agosto, l’enorme spianata che fronteggia il Lincoln Memorial si riempì di folla. Sembrava, davvero, l’inizio di un sogno. Ma fu davvero così?

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‘I have a dream…’: cosa ci racconta, sessanta anni dopo, il sogno di Martin Luther King?

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