Accadde il 28 agosto del 1963, esattamente 60 anni fa. Fu in quel giorno, ci ricordano i libri di storia, che il reverendo Martin Luther King Jr. pronunciò – dall’alto del Lincoln Memorial e davanti a una immensa folla accalcata lungo il Mall di Washington D.C. – il più famoso dei suoi discorsi. Quello che, nella sua più emblematica e per molti versi immortale parte – la sua parte finale – così comincia: I have a dream…. Io ho un sogno, aveva quel giorno detto Martin Luther King: il sogno di un’America finalmente all’altezza dell’idea di libertà che l’ha fondata. Un’America nella quale “i figli di chi è stato schiavo e i figli di chi ha posseduto schiavi possano sedersi, senza distinzioni, intorno al tavolo della fratellanza” e dove, come Dio volle, ciascuno venga giudicato in base “ai suoi meriti e non al colore della sua pelle”. “Let freedom ring” aveva detto e ripetuto MLK. Lasciate che i rintocchi della campana della libertà risuonino ovunque, perché ovunque, lungo valli tortuose della California come lungo le sponde del Mississippi, la libertà di ciascuno si può finalmente specchiare nella libertà di tutti. E perché, in questa nazione che ha finalmente ritrovato se stessa, “tutti i figli di Dio, bianchi e neri, ebrei e non ebrei, protestanti e cattolici possono infine prendersi per mano e cantare insieme le parole dell’antico spiritual nero: Free at last. Free at last. Thank God almighty, we are free at last….

Con queste parole Martin Luther King aveva memorabilmente chiuso il suo discorso. Questo – questo antico struggente canto – era il suo sogno. Ma da dove era davvero partito quel discorso? E dove è infine arrivato, se davvero un arrivo c’è stato? Più in concreto: quale fu il retroterra storico e quali sono stati – quali continuano ad essere – gli esiti di quel sogno che, da quando è stato enunciato, ogni giorno arriva a noi con intatto vigore? Di quali cambiamenti quel discorso è stato il frutto? E, soprattutto, che cosa ha a sua volta cambiato? Per rispondere occorre, ovviamente, partire da molto lontano e arrivare molto vicino. Lontano come il 1619, e vicino come le cronache che, in questi giorni – nel pieno di quella che è, a tutti gli effetti, una epocale crisi della democrazia americana – scandiscono la miseria della politica Usa ai tempi di Trump.

Fu infatti nell’agosto del 1619 – 404 anni fa esatti al mese – che il primo carico di schiavi africani, catturati da pirati inglesi in quello che era allora il regno di Ndongo e che oggi è l’Angola, sbarcò a Point Confort (oggi Fort Monroe). Venduto – in cambio di cibo e articoli vari – sulla piazza di Hampton, in Virginia, allora una remota e trascurata colonia dell’impero britannico, quel gruppo di schiavi non doveva essere che una momentanea alternativa a buon mercato (nonché più duratura, perché non legata ad alcun contratto) al cosiddetto indentured labor, il lavoro forzato col quale i più poveri tra gli immigrati dalla madre patria britannica ripagavano (suona familiare?) il viaggio verso le speranze del “nuovo mondo”. Contrariamente ai braccianti indentured non c’era, per chi arrivava contro la sua volontà dall’Africa, alcuna libertà alla fine del tunnel. Soltanto schiavitù.

E questa schiavitù – fenomeno originalmente di ridotte dimensioni per quantità e importanza – s’era infine, un secolo e passa dopo lo sbarco di Point Confort, incontrata con la nascente rivoluzione industriale e con il sorgere del capitalismo, trasfigurandosi e diventando, sotto il molto edulcorato nome di peculiar institution, l’istituzione peculiare, parte essenziale del sistema economico americano. Era il cotone raccolto dagli schiavi nelle piantagioni delle più meridionali tra le 13 colonie americane, che riforniva di materia prima le fabbriche tessili di Inghilterra (Manchester in particolare) e dei più sviluppati paesi europei, dove altri schiavi – o semi-schiavi, quelli che definivano il nuovo proletariato industriale – provvedevano a trasformarlo in prodotti finiti.

Fu in questa chiave che nel 1776 la schiavitù – termine che ogni dizionario definisce come l’antitesi della libertà – si integrò senza fatica, o con la fatica di non più di qualche sporadico problema di coscienza in alcuni dei “padri fondatori” – in una rivoluzione nata sulla base d’un principio che ancor oggi, nonostante le sue originarie e pragmatiche tenebre, continua a illuminare la storia dell’umanità. “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal…”, noi riteniamo sia in sé dimostrato che tutti gli uomini sono stati creati uguali, recitava (e recita) in apertura la Dichiarazione d’Indipendenza. Un lampo di repubblicana, illuministica bellezza nella notte dell’assolutismo monarchico, una verità che, tuttavia, nel suo accecante splendore, ne occultava, sventolando la bandiera dei “diritti naturali dell’uomo”, un’altra molto più prosaicamente concreta. Ovvero: come quel all, tutti, si riferisse, nella realtà dei fatti, soltanto a un settore degli esseri umani di pelle bianca e di sesso maschile che popolavano quella parte d’America.

Quale settore? Quello definito dal possesso di beni. Tutti gli uomini (maschi e bianchi) erano “nati liberi”. Ma era l’avere, non l’essere quel che qualificava la loro libertà. C’erano, insomma, in quelle colonie in procinto di diventare la prima democrazia del mondo moderno, uomini (tutti uguali, anche se alcuni, orwellianamente, più uguali degli altri) e proprietà. E proprio questo – non-uomini, proprietà come le vacche e i maiali, come la terra che coltivavano e come il cotone che raccoglievano – erano le più di 500 mila anime (il 20 per cento del totale della popolazione d’allora) arrivate in catene dall’Africa. Anime morte, per dirla con Gogol, ma a loro modo anche privilegiate, visto che appartenevano a quella metà scarsa degli imbarcati sopravvissuta alle delizie della crociera transatlantica.

È da questa originaria promessa di libertà, per due secoli tradita dalle leggi della prevaricazione e del profitto, che il sogno di Martin Luther King prese le mosse 60 anni fa. Un sogno che è anche un lungo viaggio di resistenza e di speranza. Un viaggio che continua.

‘I have a dream…’: cosa ci racconta, sessanta anni dopo, il sogno di Martin Luther King?

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