La schiavitù? Un programma di avviamento al lavoro per razze inferiori tenutosi con successo tra il 1776 – anno della nascita degli Stati Uniti d’America – e il 1865, anno in cui venne abolito… No, non sono ovviamente queste le parole con le quali, non più di qualche mese fa, il Florida Department of Education ha stilato – su indicazione di Ron DeSantis, governatore e aspirante alla nomination repubblicana per le prossime presidenziali – il nuovo curriculum per l’insegnamento della storia patria nelle scuole pubbliche dello Stato. Proprio questo è però, nella sostanza, quello che i pargoli del Sunshine State – messi finalmente al bando i testi woke che “alimentano la divisione razziale” – dovranno apprendere negli anni a venire: che la schiavitù ebbe, per chi fu schiavizzato, anche un lato positivo in quanto – e qui la citazione è davvero letterale – molti di loro ebbero da schiavi “l’opportunità di apprendere mestieri che avrebbero poi utilizzato a proprio vantaggio”.

O, per usare le parole del medesimo DeSantis: perché molti di loro, abbandonate le piantagioni per grazia del padrone, sono poi diventati, fabbri e falegnami”. Fabbri, falegnami, ma non cittadini. E non uomini. Perché questo, nel 1857, aveva sancito, anzi aveva confermato la Dred Scott vs. Sandford, una delle più infami tra le molte sentenze emesse dalla Corte Suprema. Schiavo o liberato, prigioniero della piantagione o libero artigiano – aveva in sostanza stabilito quella sentenza – negli Stati Uniti d’America chi aveva la pelle nera restava quello che era: un animale senza diritti.

Tornando al curriculum floridiano: come definirlo? Un’aberrazione? Un’idiozia già morta sepolta sotto il peso d’una collettiva risata? Per nulla. Sessant’anni fa, nel più celebre dei suoi discorsi – quello del “I have dream…” di cui in questi giorni si celebra l’anniversario e che di questi post è l’oggetto – Martin Luther King aveva, con biblici accenti, sognato un’America capace di “attraversare il Mar Rosso dell’ingiustizia e della diseguaglianza”. Un’America nella quale (già l’abbiamo ricordato nei precedenti post) “i figli di chi è stato schiavo e i figli di chi ha posseduto schiavi“ potessero infine sedersi assieme, senza distinzioni, attorno “al tavolo della fratellanza”. Oggi, sei decenni più tardi, moltissime cose sono sicuramente cambiate e cambiate in meglio. In meglio, anzi – vedi, nel 1954, la fine della segregazione nelle scuole decretata dalla Corte Suprema con la sentenza Brown vs Board of Education – le cose già avevano cominciato a cambiare ancor prima degli scontri di Birmingham e della grande manifestazione del 28 agosto 1963.

La stagione delle grandi lotte per i diritti civili ha lasciato un segno incompiuto ma indelebile nella storia d’America. E di quel “sogno” si possono ancor oggi misurare monumentali risultati. Su tutti: il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act del 1965 che, almeno da un punto di vista legale, scrissero l’epitaffio del Jim Crow. Ma il metaforico tavolo invocato da MLK dall’alto del Lincoln Memorial in quella ribollente mattinata del 28 agosto di 60 anni fa, resta ancora vuoto. E la “fratellanza” non è, allo stato delle cose, che la finzione d’un revisionismo (o negazionismo) storico che, mai scomparso, ha conosciuto negli ultimi anni – quelli della definitiva “trumpizzazione” del Partito Repubblicano – un’impennata a immagine e somiglianza Grande Leader. Ovvero: pronta a sfidare il ridicolo. E a sfidarlo, come testimonia il tutt’altro che isolato caso della Florida, con pieno successo. Make America Great Again (Maga) è lo slogan del trumpismo ormai assoluto padrone di quello che fu il partito di Abraham Lincoln. E la G di “great”, grande, non è che l’ovvia dissimulazione della W di “white”, bianca.

Non per caso. Il revanscismo bianco è, infatti, il punto di arrivo di una lunga storia cominciata in pratica il giorno stesso in cui il Jim Crow veniva ufficialmente archiviato dalla Storia. Cominciata, anzi, ancor prima. E cominciata nel sangue. Appena un paio di settimane dopo la grande manifestazione di Washinton D.C., quando ancora non s’era spenta l’eco del discorso di MLK, in quel di Birmingham – là dove, per molti versi tutto era cominciato – una bomba aveva fatto saltare per aria la chiesa battista della sedicesima strada, uccidendo quattro bambine nere. E qualche giorno più tardi, a Jackson, in Mississippi, Medgar Evers, uno dei leader della lotta per i diritti civili, era stato assassinato a fucilate davanti a casa…

Jim Crow era morto e il “sogno” di Martin Luther King era parte della storia. Ma il razzismo – causa ed effetto del “peccato originale” della schiavitù e permanente zavorra della “più antica democrazia del mondo” – continuava, ben viva, a covare sotto le ceneri. La southern strategy del Partito Repubblicano – la politica d’ammiccante comprensione verso gli orfani della segregazione e dell’incontrastata egemonia bianca – fu, insieme agli appelli alla famosa “maggioranza silenziosa”, al centro della vittoriosa campagna presidenziale di Richard Nixon nel ’68. E anni più tardi, nel 1980, Ronald Reagan avrebbe per così dire ribadito il concetto, aprendo ufficialmente la sua campagna elettorale a Philadelphia. No, non “quella” Philadelphia. Non la capitale della Pennsylvania dove venne approvata la Costituzione nel 1791, ma la sua omonima del Mississippi, la cittadina dove, nel giugno del 1964 – come puntualmente raccontato nel bellissimo film Mississippi Burning – tre attivisti dei diritti civili erano stati assassinati dal Ku Klux Klan. Bianchi del Sud, io sono con voi. Questo era il – neanche troppo subliminale – messaggio.

E assassinato fu, quattro anni più tardi, anche lo stesso Martin Luther King. Alle sei e un minuto del pomeriggio del 4 aprile del 1968, mentre s’affacciava sulla balconata del Lorraine Motel di Memphis, nel Tennessee, una pallottola sparata da ancora non si sa chi – quasi nessuno, ormai, crede che il vero colpevole sia davvero quel James Earl Ray che, condannato per quel delitto, è morto in carcere nel 1998 dichiarandosi innocente – uccise l’uomo che solo cinque anni prima aveva sognato un’America di uomini uguali. Oggi quel Motel – rimasto intatto in ogni dettaglio – è sede del Museo dei Diritti Civili. E in una delle stanze un robot ripropone, registrati, tutti i più famosi discorsi di MLK. L’ “I have a dream…”, ovviamente. E anche l’ultimo, che con la forza d’una profezia King pronunciò la notte del 3 aprile di fronte ai “garbagemen”, i netturbini di Memphis in sciopero. “Dio mi ha permesso di raggiungere la cima della montagna – aveva detto – e dalla montagna io ho guardato e ho visto la terra promessa. Forse io non la potrò raggiungere insieme a voi. Ma voglio che voi sappiate che noi, come popolo, raggiungeremo la terra promessa. E, per questo, stasera io sono felice. Sono felice e non ho paura di nulla, non temo nessuno. Perché i miei occhi hanno visto la gloria e l’avvento del Signore”.

Il giorno dopo Martin Luther King moriva ammazzato. Resta consegnato all’eternità della storia il suo sogno. Ma la terra promessa che il reverendo aveva visto dalla cima della montagna ancora è oltre la linea dell’orizzonte. Lontana e invisibile. Irraggiungibile.

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‘I have a dream…’: cosa ci racconta, sessanta anni dopo, il sogno di Martin Luther King?

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