La prima volta fu – forse qualcuno ancora lo ricorda – quando la primavera appena era iniziata. E in realtà non di una, ma di 34 prime volte s’era trattato. Perché tanti, 34, erano in effetti stati i capi di imputazione che Alvin Bragg, Manhattan District Attorney, aveva, quando l’aprile era alle porte, mosso contro Donald J. Trump partendo da una vecchia e stranota vicenda di “hush-money”. Ovvero: dai denari che, nell’anno del Signore 2016, il futuro presidente aveva per vie traverse pagato – violando penalmente un lungo elenco di norme fiscali e di trasparenza amministrativa – per garantirsi, nel pieno della campagna elettorale, il silenzio di Stephanie Clifford Gregory, professionalmente nota come Stormy Daniels, procace pornostar con la quale aveva intrattenuto una fuggevole ma assai imbarazzante relazione extra-coniugale. Mai prima di quel fatidico giorno – questo, allora, avevano fatto all’unisono rilevare i media – un presidente (in carica o ex che fosse) era stato formalmente accusato di reati penali. (Richard Nixon aveva per la verità, ai tempi del Watergate, sfiorato il record. Ma le dimissioni ed il successivo perdono di Gerald Ford lo avevano salvato).

La seconda prima volta – seconda perché arrivata dopo la prima e prima perché stavolta di ben più gravi reati federali e non distrettuali si trattava – era sopraggiunta poco più d’un paio di mesi più tardi, quando, lo scorso 9 di giugno, lo Special Council Jack Smith aveva presentato all’ex presidente il conto (una “sberla” da 34 capi d’imputazione, “and counting” come si dice in inglese, considerato che quasi ogni giorno, in questa vicenda, emergono nuove malafatte) per l’illegale occultamento di documenti, molti dei quali top-secret, finiti nei più “intimi” (bagni, docce) o pubblici (sale da ballo) anfratti della reggia trumpiana di Mar-a-Lago, in Florida.

La terza prima volta – terza in ordine di tempo ma primissima per importanza considerato il peso storico-politico dei reati contestati – è vecchia di appena qualche giorno. E punta, finalmente, diretto al cuore di questa delittuosa storia. Vale a dire: rivela, con l’inequivocabile, quasi didascalica chiarezza d’un manuale per l’uso, la natura non occasionalmente criminale, ma intrinsecamente – talora addirittura caricaturalmente – sovversiva ed antidemocratica, non solo del trumpismo, ma dell’intero Partito Repubblicano che del trumpismo è da anni ostaggio. In sostanza: Donald J. Trump è ora ufficialmente accusato, attraverso tre distinti capi d’imputazione, d’avere, sventolando la bandiera d’una inesistente frode, tentato di sovvertire l’ordine democratico, impedendo il pacifico passaggio dei poteri da un presidente – lui medesimo, che le elezioni del 2020 le aveva perse – all’altro (Joe Biden che quelle elezioni le aveva vinte).

Riassumendo. Nessuno può accusare Donald J. Trump di non aver fatto onore all’immagine – quella di un ego narcisisticamente XXL (extra-extra-large) – che ama dare di se stesso. Per un quarto e passa di millennio nessun presidente Usa aveva conosciuto l’onta di finire alla sbarra. In poco più di quattro mesi lui alla sbarra ci è finito – con ancora almeno un paio di procedimenti in corso d’indagine – per ben 78 volte. I numeri hanno ovviamente, in questa vicenda, un valore puramente simbolico, ma egualmente rendono l’idea di quale inarrivabile fuoriclasse sia, in materia criminale, il penultimo presidente degli Stati Uniti d’America. Anthony Lin, analista dell’agenzia di notizie Bloomberg si è preso la briga di calcolare quanti anni dovrebbe restare in carcere Donald Trump dovesse – cosa evidentemente impossibile – essere condannato al massimo della pena per ciascuno dei reati che fino ad oggi gli sono stati formalmente imputati. E questa è la cifra: 616 (seicentosedici) anni, Molti più ovviamente di quelli che a Trump restano da vivere. Ed anche probabilmente, visti gli ultimi dati sul global warming – un fenomeno che Trump, notoriamente, considera un “hoax”, una strumentale burla messa in circolazione dalla Cina – molti più di quelli che separano il pianeta Terra dalla sua apocalisse crematoria.

Che cosa significa tutto questo per gli Usa e, inevitabilmente, per il mondo? La malandata barca della democrazia sta attraversando, non solo in America ma a livello globale, acque inesplorate e tempestose. Ed ogni perentoria risposta non sarebbe che un azzardo. Però due cose ci dicono oggi i sondaggi con molta chiarezza. La prima: alla luce dei dati attuali difficilissimo è immaginare, in vista delle presidenziali del 2024, un candidato repubblicano che non sia proprio lui, Donald J. Trump. Sul New York Times, Nate Cohn, ha esaminato, cifre alla mano, la natura e la forza di quello che – prendendo a prestito un’espressione del “politichese italico” – potremmo chiamare lo “zoccolo duro” del trumpismo. Ovvero: di quel quasi 40 per cento di potenziali elettori repubblicani – la granitica “MAGA base”, come Cohn la definisce – per i quali non c’è vita oltre Trump. In teoria (molto in teoria) uno degli altri 11 aspiranti repubblicani potrebbe, rastrellando il restante 60 per cento, strappare la nomination. Ma lo farebbe, in ogni caso, al prezzo d’una scissione del partito.

Seconda cosa: per quanto ancora troppo preliminari, le ultime inchieste rivelano, in un ipotetico ma probabilissimo scontro-rivincita tra Trump e Joe Biden (quest’ultimo di fatto senza rivali dal lato democratico, nonostante una popolarità, o impopolarità, appena sopra il 40 per cento) un imprevedibile testa a testa. Il che vuol dire che, sì, quello che già fu il 45esimo presidente degli Stati Uniti e che oggi è un imputato in attesa di 78 giudizi (tre dei quali inequivocabilmente parlano di sovversione antidemocratica) potrebbe tornare a vivere, nel gennaio del 2025, al numero 600 di Pennsylvania Avenue, Washington D.C..

È in questi panorami che la stagione elettorale sta per cominciare sullo sfondo di una democrazia – proverbialmente la “più antica del mondo” – nel pieno d’una crisi epocale. Ne vedremo delle belle. E queste “belle” questo blog si propone di raccontare. Incrociando le dita.

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