Nel 1967, la ‘società dello spettacolo’, il profetico libro di Guy Debord, anticipava la pervasività dei media di massa nel dominio dell’opinione pubblica attraverso le immagini. Nelle società in cui le informazioni sono dominate da media di massa come era la televisione fino a qualche anno fa e come sono i social oggi, ogni aspetto della vita sociale acquisisce in effetti il carattere separato di spettacolo in cui la attività della rappresentazione è distinta dalla passività della ricezione. Il modo con cui sono trattate in questi giorni le notizie del giorno – l’affare Vannacci e lo stupro di gruppo di Palermo – confermano, se mai ce ne fosse bisogno, quanto profondo ormai è il controllo dell’opinione pubblica e quanto facile la sua manipolazione attraverso l’uso dell’informazione.

Il generale Vannacci ha scritto un libro che sostiene tesi avverse a Lgbt, femminismo e migranti. Il libro ricalca più o meno il tenore della gran parte dei dibattiti televisivi in cui la contrapposizione gridata e esasperata delle tesi nasconde la pochezza (o la nullità) dei contenuti. Il dibattito che si è aperto riguarda la responsabilità pubblica del generale, che in quanto rappresentante delle istituzioni non potrebbe esprimere in un libro autoprodotto e pubblicato come comune cittadino opinioni disonorevoli dell’arma. Giorni e giorni di prime pagine dei media non mi hanno ancora permesso di comprendere quali siano le affermazioni di gravità tale da portare all’esautoramento dell’alto ufficiale: se vi siano incitamenti all’odio (in questo caso perseguibili per legge) oppure se il tutto rimanga nella sfera legittima della manifestazione delle proprie – per quanto discutibili – opinioni.

Si vedrà forse nei prossimi mesi in qualche trafiletto se la decisione di rimuovere il generale dall’incarico sia stata giuridicamente fondata o meno, intanto il mostro, o a seconda dei casi l’eroe, è stato dato in pasto ai bagnanti sotto gli ombrelloni di ferragosto.

Lo stupro di gruppo di Palermo ha sollevato un altro putiferio mediatico. Stupri di gruppo si susseguono da anni e decenni in Italia e regolarmente i carnefici o non vanno in galera, se hanno quattrini e buoni avvocati, oppure scontano un periodo molto ridotto di pena in carcere.

L’efferatezza del crimine palermitano, condito da scambi di Whatsapp che dovrebbero essere tutelati dalla privacy, ha portato alla ribalta vecchi slogan che inneggiano alla fine del patriarcato – come se fossero le culture tradizionali a essere responsabili delle violenze e delle sopraffazioni degli uomini sulle donne. La spiegazione non è priva di qualche verità, ma che i giovani che hanno violentato in gruppo una ragazza indifesa siano solo figli di culture tradizionali è una tesi piuttosto ardita da sostenere.

Innanzitutto le culture tradizionali che in Italia hanno prevalentemente matrice cattolica si basano sul rispetto tra marito e moglie, per cui non si capisce bene cosa si intenda con la chiamata in causa delle tradizioni come responsabili della violenza dell’uomo sulla donna. Eventualmente si può discutere di ruoli sociali restrittivi e emancipazione, ma questo ovviamente secondo me non ha molto a che fare con l’efferatezza di stupri e femminicidi che ogni giorno si perpetuano nella terra dei santi, dei poeti e dei navigatori. Basta ascoltare invece una qualsiasi canzone trap che centinaia di migliaia di giovani e adolescenti quotidianamente scaricano da internet per capire che i problemi sono probabilmente parecchio più complessi.

Più che le tradizioni sono le nuove culture popolari – frutto della società dei consumi, musica, televisione, internet – con un carico di violenza verbale e visiva senza precedenti a sedimentare oggi il terreno di individualismo, violenza e assenza di regole di cui si alimentano le nuove generazioni. Un qualsiasi testo trap è un incitamento alla sopraffazione cento o mille volte più pericoloso delle opinioni di un generale che prima di ieri nessuno conosceva e di cui, se non fosse stato rilanciato sulle pagine dei giornali, assai probabilmente nessuno avrebbe mai letto il libro. Ma vietare certi testi e punire chi inneggia alla violenza nell’industria dello spettacolo non è al momento tema. Così come non è argomento quello di parlare della durezza delle pene che costituiscono un deterrente alla violenza. “Un’educazione senza regole non è una buona educazione” è un vecchio adagio orientale che le ideologie della rieducazione hanno completamente dimenticato, con il risultato che la violenza senza freni, perpetuata non solo nei confronti di donne ma anche di anziani, di persone disabili, di persone fragili da parte di carnefici incapaci di distinguere i confini morali delle loro azioni e incuranti delle sanzioni che sanno essere sempre più lasche e facilmente aggirabili, è ormai dilagante.

In questo sistema di informazioni sempre più pervasivo e malato, ogni secondo giorno sui media viene presentato così il mostro di turno, senza riflettere su cosa sia veramente mostruoso e cosa vada approfondito e riflettuto e soprattutto cosa debba essere urgentemente riformato. Debord scriveva che la società dello spettacolo distrugge il reale e effettivamente questo è ciò che con sempre maggiore ferocia sta accadendo. L’opinione pubblica è costantemente ammansita, fagocitata e polarizzata al punto tale che domani si potrebbe dire per bloccare gli effetti del cambiamento climatico bisogna lanciarsi da una scogliera come un branco di lemming e sicuramente qualcuno seguirebbe l’indicazione.

Il grande pericolo delle democrazie è oggi il potere di chi controlla le persone selezionando le informazioni e non fornendo argomenti per riflettere e argomentare in modo scevro dalle facili ideologie o dagli interessi di chi non vuole affrontare per davvero i problemi drammatici che affliggono la società contemporanea.

I partiti tutta patria religione e famiglia sono i primi a volere togliere la prescrizione, mentre i progressisti ancora si affannano a rivendicare il principio della pena come rieducazione in un sistema carcerario in cui ogni anno si contano centinaia di suicidi e che di rieducativo ha meno di zero.

Forse varrebbe la pena di riflettere su come prendono forma le notizie sui media e di quali effetti sortiscono sull’opinione pubblica.

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