Non amo necrologi e coccodrilli e, come sempre di fronte a un lutto, non ho mai parole adeguate. Ho il timore di scivolare sulle frasi fatte e sulla retorica. E una morte è tutto, fuorché un cliché o un espediente linguistico. Per cui di Michela Murgia dirò le cose che sento, per come l’ho conosciuta e per quello che mi ha lasciato in tutti questi anni.

La mia, sia chiaro, è una conoscenza quasi esclusivamente letteraria e politica. L’ho vista dal vivo tre o quattro volte, qualche scambio fugace e nulla più. E quindi, cosa dire? Dirò che Accabadora, il romanzo che le ha dato grande popolarità, ha segnato per me la differenza tra un prima e un dopo. E ancora: le sue prese di posizione, in tutti questi anni, mi hanno aiutato a crescere. Questo, la sua morte, non me lo toglierà mai. E forse potrei fermarmi qui.

Ma dirò di quando era su quel carro al Sardegna Pride di qualche anno fa. Era il 2019, lei era la madrina della manifestazione. Una delle poche di cui il movimento Lgbtqia+ non ha mai provato vergogna, per infelici dichiarazioni successive (citofonare Arisa, ad esempio). Quel giorno, in quella piazza a Cagliari, disse – in sardo – qualcosa di incomprensibile, per me. Qualcosa che fece esplodere la folla in un abbraccio collettivo e in urla di gioia. Poi mi spiegarono cosa era successo. La madre, se non ricordo male, le aveva detto che era bello questa cosa che stava facendo “per i froci” (no, non c’era giudizio o insulto nell’uso di quel termine). E lei le aveva risposto che non lo stava facendo solo “per i froci”, ma per lei stessa, per i suoi figli, per tutti e tutte.

E sempre su quel carro, prima che partisse il corteo a cui partecipò in prima fila, ci diede una grande lezione di civismo e di lotta, quando disse: “I diritti, come sempre, sono diritti di tutti. Non credete a chi dice che ormai abbiamo ottenuto tutto: è vero che la nostra vita non è più la stessa di dieci, di venti anni fa, ma è anche vero che non esistono diritti acquisiti, esistono quelli che siamo in grado di difendere”.

Michela Murgia fu colei che al convegno “Gestazione per altre e altri – Genitorialità tra desideri, diritti e doveri” organizzato a Roma da Famiglie Arcobaleno intervistò alcune donne che avevano fatto la surrogacy. Una di loro disse che si considerava come “un forno” che faceva nascere i bambini per le coppie che chiedevano il suo aiuto. Negli Usa, o quanto meno per quella donna, evidentemente quel modo di dire non ha connotati negativi. Noi in platea, invece, ci irrigidimmo: quella parola qui in Italia viene usata come un insulto, proprio contro le famiglie arcobaleno. Soprattutto da omofobi e terf. Ci fu un certo brusio. Lei ci riprese, in modo forse un po’ brusco. Ci ricordò che dovevamo accettare quelle parole, anche se non ci riconoscevamo in esse. Per una questione fondamentale di rispetto delle opinioni altrui.

Michela Murgia è colei che oggi fa sproloquiare migliaia di haters che gioiscono della sua morte. Che porta certi politici, che l’hanno sempre avversata e offesa in tutti questi anni, a dedicarle un pensiero. Di certo sono dichiarazioni di comodo, queste ultime. E più genuine le prime, pur nella loro assoluta mancanza di senso dell’umano. Ma è questa una delle grandi eredità che ci lascia: ha costretto tantissima gente a pensare. Ponendoci di fronte ai nostri limiti. Poi lì è sempre una questione di empatia e umanità. Di elezione, se vogliamo. C’è chi si salva, c’è chi persegue nell’errore di credere che la sua visione sia l’unica possibile (salvo poi cianciare di pensiero unico e amenità simili).

Letterata e attivista. Femminista e alleata. Arte e lotta. Letteratura e senso civico. È questo che resta di lei. E come qualcuna ha fatto notare, sui social, la sua famiglia queer è molto più grande di quanto si potesse pensare: perché oggi c’è un’intera comunità che si stringe attorno all’eredità che lascia di sé, oltre che alla sua figura. E la promessa, diffusa e condivisa, è quella di perseguire una lotta che non può scendere a patti con quella classe politica, oggi saldamente al governo, che va rispedita quanto prima e al più a lungo possibile ai margini del discorso pubblico.

Tutto questo mi fa credere che la sua impronta non è, e non sarà, un’orma sulla sabbia del tempo. Per questo, per tutto questo, grazie davvero.

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