“Ho già avvertito il mio comandante e i miei soldati. È stata la cosa più difficile che ho fatto in vita mia. Non si torna indietro, la vacca sacra del servizio militare è stata macellata”. Le parole che il Maggiore Nir Avishai Cohen, riservista dell’esercito israeliano, ha rilasciato nei giorni scorsi al quotidiano online Middle East Eye sono colme di amarezza e di timori che riecheggiano anche nelle parole del collega, il generale e comandante delle Forze aeree in pensione, Eitan Ben Eliyahu: “Andiamo verso il disastro”. L’approvazione da parte della Knesset della prima fase della discussa riforma del sistema giudiziario perseguita dal governo di Benjamin Netanyahu – volta in sostanza ad indebolire le prerogative della Corte Suprema – sembra aver inclinato un piano che aveva già perso il suo equilibrio a inizio marzo.

In quei giorni, la sempre più insistente pressione in favore della riforma da parte dell’esecutivo aveva spinto i primi riservisti israeliani ad annunciare per protesta l’interruzione del proprio addestramento e della propria disponibilità a rispondere alle chiamate alle armi. Trentasette dei quaranta componenti riservisti del Battaglione 69 – una forza aerea d’élite responsabile ad esempio di decine di attacchi su obiettivi iraniani in territorio siriano negli ultimi anni, a partire da quello su un presunto reattore nucleare di Deir Ezzor nel 2007 – avevano così deciso di esprimere la propria contrarietà al processo di riforma, seguiti poi nelle settimane successive da altri 180 piloti e comandanti riservisti.

Una emorragia che non si è interrotta, ma che invece sembra assumere giorno dopo giorno maggiore forza, con una serie di rischi per le Forze Armate e per la tenuta stessa del Paese. Come riporta il Jerusalem Post, all’indomani dell’approvazione due settimane fa della limitazione della “clausola di ragionevolezza” (grazie alla quale la Corte Suprema poteva bloccare alcune decisioni del governo), altri 120 riservisti hanno annunciato a loro volta il boicottaggio. E nei giorni immediatamente precedenti al voto della Knesset 60 membri riservisti dell’unità di intelligence nota col nome di Havatzalot – che addestra agenti destinati a ruoli nel Direttorato dell’Intelligence militare – hanno recapitato quattro lettere al premier Netanyahu mettendolo in guardia dai danni che la cancellazione della clausola di ragionevolezza potrebbe generare sull’architettura di deterrenza nei confronti di Iran e Hezbollah.

Un’allerta confermata dal ministro della Difesa, Yoav Gallant, che di fronte ai membri della commissione Affari Esteri e di Sicurezza della Knesset ha ribadito come “il rifiuto a servire di un numero crescente di riservisti potrebbe danneggiare nel lungo termine la capacità di combattere dell’esercito, anche se al momento i danni sono limitati”. Qualche numero aiuta a mettere in prospettiva il fenomeno: prima del voto, il totale dei riservisti che aveva annunciato le proprie “dimissioni” in caso di approvazione ammontava a 1.142 unità, tra cui 235 piloti di aerei da combattimento, 98 di aerei trasportatori, 89 di elicottero e 173 operatori di droni. Due soli giorni dopo il voto, altri 120 riservisti si sono aggiunti. In totale, sarebbero circa 10mila quelli – divisi in almeno 40 diverse unità e uniti nella protesta sotto al banner “fratelli in armi” – ad aver dichiarato la propria autosospensione.

La situazione appare molto opaca e per certi versi paradossale: se è vero che i riservisti sono in sostanza cittadini e volontari, motivo per cui la loro indisponibilità non configura un calo degli effettivi regolari, quello israeliano si è sempre fregiato dell’appellativo di “Esercito della gente”, sia perché la leva è obbligatoria per donne e uomini (ma non per gli studiosi della Torah, nel segmento degli ultraortodossi che compongono il 13% della popolazione), sia perché senza i riservisti – che in totale ammontano a 490mila – le Forze Armate sono numericamente esigue.

C’è chi teme che, con una simile dinamica in atto, l’esercito possa essere colto impreparato o addirittura trovarsi nella incapacità numerica di sostenere un conflitto, ma c’è anche un sinistro timore di segno opposto: e cioè che l’esecutivo, assecondando e ricorrendo al proprio tradizionale approccio, voglia “testare” la capacità delle Forze Armate aprendo o riaprendo un fronte bellico, che abbia anche l’usuale funzione di diversivo.

Questa frattura nell’esercito, poi, è stata aperta dal governo più a destra della storia del Paese, composto da politici che hanno sempre condito la propria piattaforma con una spiccata retorica militarista, nonché promosso una quantità di operazioni che hanno spesso indotto a pensare che i quadri militari avessero una quota di potere sostanziale molto maggiore di quello che gli aspetti procedurali della democrazia israeliana fanno apparire. È bizzarro, quindi, sentire i ministri del governo Netanyahu chiamare “traditori” dei decorati militari. Ancor più lo è vederli nei panni dei “guardiani della democrazia” e del primato civile contro quelli che sono percepiti come tentativi di sabotaggio dell’esercito da parte dei riservisti stessi e sabotaggio del mandato elettorale da parte del potere giudiziario di cui si vogliono limitare le prerogative.

La frattura non sembra tuttavia limitarsi a questi ambiti: anche un piccolo ma crescente gruppo di parlamentari del Likud – il partito di Netanyahu – sta iniziando a far sentire la propria insofferenza rispetto alla riforma, guidato dal capo della commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, Yuli Edelstein, che teme una spaccatura netta nella maggioranza.

Il Paese, e non solo l’Esercito o l’arena parlamentare, è sempre più diviso, in guerra con se stesso prima che con i suoi nemici: un recente sondaggio condotto da Maariv, uno dei principali giornali israeliani, ha reso noto che il 58% degli israeliani teme una guerra civile, il 36% pensa che la riforma giudiziaria debba essere immediatamente interrotta e il 22% crede al contrario che dovrebbe essere imposta ad ogni costo.

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