Rischiano di protrarsi e aggravarsi i guai giudiziari di Hunter Biden. Il figlio del presidente degli Stati Uniti, che oggi avrebbe dovuto dichiararsi colpevole di due reati fiscali minori e di possesso illegale di un’arma da fuoco, così da evitare il carcere per un accordo raggiunto con i procuratori, ha visto l’intesa saltare per volere della giudice Maryellen Noreika, nominata da Donald Trump, che ha messo in discussione il deal puntualizzando che questo non garantisce l’immunità anche nelle altre inchieste a suo carico come quelle per gli affari all’estero. Così, Biden Jr. ha deciso di fare marcia indietro e si è dichiarato non colpevole dei reati per i quali è stato mandato a processo. Ma adesso, con le Presidenziali 2024 sempre più vicine e i genitori che continuano a sostenerlo, Hunter Biden rischia il carcere.

L’inchiesta nei suoi confronti va avanti dal 2018, è nata durante l’amministrazione Trump ed è costata all’attuale presidente numerose accuse da parte degli avversari politici, secondo i quali l’attuale amministrazione avrebbe garantito un trattamento di favore al figlio del presidente configurando così un evidente conflitto d’interessi. L’accordo, raggiunto con il procuratore del Delaware nominato negli anni dell’amministrazione Trump, prevedeva che Hunter Biden si dichiarasse colpevole di due reati fiscali minori relativi al mancato pagamento di tasse per il 2017 e 2018, per una somma totale di circa 1,2 milioni di dollari. L’ultimo reato del quale si sarebbe dovuto assumere la responsabilità è il possesso illegale di un’arma acquistata nel 2018, una Colt Cobra 38 special, nonostante i suoi problemi di dipendenza da cocaina che, se dichiarati, gli avrebbero impedito di possederla. “So che Hunter ritiene importante assumersi la responsabilità per gli errori commessi durante un periodo della sua vita di turbolenza e dipendenza – aveva commentato il suo avvocato – Non vede l’ora di continuare il suo recupero e di andare avanti”. La Casa Bianca si è limitata a dire che “il presidente e la First Lady amano Hunter e lo sostengono nel percorso di ricostruzione della sua vita”.

Questi, però, sono solo alcuni dei capitoli giudiziari che hanno coinvolto il figlio del presidente Biden e, politicamente parlando, anche suo padre. Uno di questi, dal quale in realtà la famiglia Biden è uscita pulita, è quello che ha poi portato alla richiesta di impeachment per Donald Trump nel 2019. Quell’anno, il tycoon, allora alla Casa Bianca, in piena campagna elettorale aveva affermato che Joe Biden aveva chiesto il licenziamento di un procuratore ucraino che indagava su Hunter Biden al fine di proteggerlo. Per questo l’ex presidente aveva contattato Volodymyr Zelensky chiedendogli di indagare i Biden dopo aver sospeso l’invio di aiuti militari. Tutto era partito da un laptop guasto abbandonato in un negozio in Delaware e consegnato all’Fbi dall’avvocato di Trump, Rudy Giuliani. Sul pc vi era la cronaca della vita sregolata di Hunter, così Giuliani aveva trasmesso il contenuto al New York Post nelle ultime settimane delle elezioni del 2020. Nell’articolo vi erano anche email che suggerivano che Biden avesse organizzato incontri tra i suoi soci ucraini e il padre quando era vicepresidente. Un rapporto della Commissione del Senato nel 2020 sul caso, però, concluse che vi era stato un potenziale conflitto di interessi ma senza ipotizzare reati relativamente a presunti favori di cui avrebbe goduto Hunter anche nel periodo in cui era consigliere di Burisma Holdings, una delle più grandi società private di gas ucraine, negli anni in cui il padre era punto di riferimento a Kiev per l’amministrazione Obama. Queste accuse sono tornate elemento di cronaca nei mesi scorsi, rilanciate dai Repubblicani dopo il ritrovamento di documenti secretati nella residenza di famiglia a Wilmington, Delaware. I membri del Grand Old Party chiedono verifiche sulla presenza di Hunter Biden nella casa come inquilino quando i documenti erano lì. Un’ipotesi che, se confermata, secondo chi accusa potrebbe aver permesso al figlio del presidente di avere accesso ai file riservati traendone un indebito beneficio. Le accuse dei Repubblicani, in questi anni, non si sono però limitate a questo: si è parlato di attività di lobby internazionale illegale, tangenti e lavaggio di denaro sporco quando Hunter Biden era membro sia di Burisma che del fondo d’investimento cinese BHR Partners.

Ma le scelte di Hunter Biden che hanno inevitabilmente condizionato la vita e la carriera del padre sono anche di carattere non giudiziario. È ormai nota la sua lotta contro la dipendenza da alcool e cocaina, raccontata anche in un libro dal titolo Beautiful Things: “Sono anche un alcolista e un drogato. Ho comprato crack sulle strade di Washington Dc e cucinato la mia in un bungalow di un hotel a Los Angeles”, scrive in un passaggio. Tutte vicende che non hanno impedito l’elezione e la permanenza del padre alla Casa Bianca. Resta da capire se questo ultimo episodio possa avere ripercussioni sul futuro politico dell’attuale presidente degli Stati Uniti.

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