Nel vasto scemenzaio accumulatosi in questi mesi, spicca l’immortale sentenza del Gennaro Sangiuliano, inimmaginabile ministro della Cultura in carica, il quale – intervistato da Piero Senaldi – attribuisce a padre Dante, eccelso interprete della cultura urbana medievale, la fondazione del pensiero di destra.

Senza nessuna acredine polemica verso tale esegeta dantesco (sarebbe come sparare sulla Croce Rossa) varrebbe comunque la pena ricordare che nel milieu fiorentino di fine XIII secolo maturavano tesi esattamente opposte. Quanto lo storico del pensiero Quentin Skinner, nella sua monumentale opera Le origini del pensiero politico moderno, definiva “repubblicanesimo civico”. L’embrionale elaborazione dell’indipendenza comunale fondata sul principio secondo cui “la nobiltà origina non dalla nascita ma dalla virtù”; con il corollario che propugnava la lotta all’umiliazione. Dunque, l’opposto della cosmologia feudale centrata sulla gerarchia e la sottomissione dei subalterni. Aggiornando il tema, potremmo dire che da tale elaborazione “repubblicana” deriverebbe in senso lato l’utopia di sinistra e i suoi valori di solidarietà, socialità e generosità disinteressata, a fronte dei dis-valori di destra che privilegiano la prevaricazione, la possessività e l’individualismo sfrenato.

Se – dunque – addiveniamo a questa schematizzazione di massima, possiamo sintetizzare il modo di essere destrorso nella pretesa di calpestare l’inerme. E – magari – proprio in questa chiave andare a scoprire il retro-pensiero inconfessato di recenti accadimenti in casa La Russa. Scoprendo – così – precedenti significativi delle vicende che hanno portato davanti al magistrato l’ultimo nato nella nidiata di figli del presidente del Senato. Ossia la testimonianza di Roberto Vecchioni alla Gaberiana del 17 luglio scorso riguardo a fatti avvenuti trent’anni fa: la devastazione della sua casa milanese, con relative intimidazioni e furti, ad opera di una banda di imbucati in una festicciola pomeridiana, guidati dal più anziano del La Russa Brothers: Geronimo.

La ricostruzione dell’episodio, di cui erano stati vittime la figlia e i suoi amici, in cui il bravo cantautore ha dimenticato due particolari importanti: nella Milano a metà degli anni Novanta i diciottesimi e i compleanni nelle famiglie borghesi erano sotto costante minaccia di tali visite vandaliche, in cui il massimo divertimento per gli invasori era infierire e saccheggiare; ancora più grave – se possibile – il perfido commento a difesa di Geronimo da parte del padre Ignazio Benito, rilasciato alla stampa locale, secondo cui tutta la vicenda era stata montata ad arte dallo stesso Vecchioni per promuovere una sua imminente uscita discografica. Riprova, alla luce dei recenti giustificazionismi, che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Andazzo che dovrebbe fare riflettere con più attenzione – come ho già scritto in questo blog – sull’ambiente familiare in cui vengono cresciuti giovani violenti, soprattutto carichi di risentimenti sociali e di contestuali aspettative di ascesa ai piani alti. Delle cui gesta stiamo ritornando a parlare, da Leonardo Apache La Russa a Ciro Grillo.

Mentre, nell’immagine spaurita dei ragazzi e delle ragazze alle prese dell’irruzione barbarica di quei loro coetanei, mi sembra di intravvedere la metafora di un’avvenuta mutazione socio-culturale nella composizione italiana. Di cui la città della Madonnina è stata un primario laboratorio.

La vecchia borghesia della Milano civile che ormai negli anni Settanta si trincerava nelle belle case di Corso Vittorio o di viale dei Giardini, per non assistere alla discesa delle orde conquistatrici dei milanesizzati – i “falchetti” delle valli e gli immigrati dalle aree arretrate del Paese nelle transumanze del miracolo economico – portatori di tecnologie del potere (le logiche clientela-parentela) primitive quanto efficaci in un ambiente disarmato; incapace di metabolizzare i nuovi venuti attraverso processi di civilizzazione. Nel frattempo scomparivano i valori liberali della città di Carlo Cattaneo, insieme al cattolicesimo sociale di Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni, come pure “le vecchie barbe dei Navigli” (i socialisti alla Filippo Turati).

Ormai si era alla fine dell’ingannevole mitologia “Milano da bere” e stava iniziando quella “Fininvest”: il neoliberismo alla brianzola, di cui erano primario agente propagandistico le televisioni di Silvio Berlusconi. Quando le luci a San Siro cantate da Vecchioni iniziarono a spegnersi definitivamente.

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