Le proteste di giovanissimi in Francia, conseguenti all’omicidio di Nahel, ci fanno riflettere: vorremmo capire le aspettative e il disagio sociale, di questi giovani, le condizioni oggettive di svantaggio e quelle psicologiche di chi si sente svantaggiato. Io non ho modo di investigare questo; posso al massimo leggere quello che ne scrivono giornalisti e sociologi. Però posso raccontare sul blog la mia esperienza con i miei studenti, che sono più o meno coetanei di quelli che protestano in Francia. Io insegno la biochimica in vari corsi di laurea della Facoltà di Farmacia e Medicina, e, sebbene i miei studenti si rassomiglino molto tra loro, mi sembra che il gruppo più interessante da descrivere in questo contesto sia quello dell’Infermieristica della sede di Formia e Gaeta. Come in tutte le sedi distaccate, questo corso è gestito in convenzione con il distretto sanitario locale e realizza l’obiettivo di avvicinare l’Università all’utenza.

I miei studenti non sono ricchi e in gran parte sono pendolari, che risiedono con la famiglia d’origine nell’entroterra campano o pontino, zone certamente non privilegiate. Spesso ne incontro qualcuno alla stazione o sull’autobus, perché anche io per quel corso sono pendolare, e possiamo scambiare un saluto e due chiacchiere. Molti di loro fruiscono di borse di studio erogate dalla regione o da altri enti, senza le quali non potrebbero permettersi l’università. Non conosco le loro idee politiche, che immagino siano variegate, però una cosa gli è chiarissima: che esistono doveri dello Stato e doveri dello studente.

In questo dimostrano una profonda maturità che io credo li possa proteggere dall’aggregarsi a gruppi che mettono a fuoco e fiamme una città. I miei studenti sanno che avere una università o la possibilità di accedere a una borsa di studio è un loro diritto, ma sanno anche che vincere il concorso di ammissione, superare gli esami o vincere la borsa di studio non è un diritto ma un premio che deve essere guadagnato, un obiettivo da conquistare.

Non sono marginalizzati e non si sentono tali, ma sono consapevoli che l’inserimento sociale si conquista con lo studio e col lavoro. Certamente concorre alla loro maturazione il tirocinio pratico che svolgono negli ospedali, a contatto con la malattia, la sofferenza e la morte; ma poiché io li vedo al primo anno, molta della loro maturità deve venire dall’insegnamento ricevuto a scuola e in famiglia.

L’esperienza personale, per quanto estesa, non fa statistica; al massimo può fornire esempi. Però l’esempio, non essendo riferito a eventi eccezionali, mi suggerisce almeno una cosa: che la marginalizzazione sociale e l’esclusione, salvo casi particolari, non sono destini ineludibili, ma condizioni alle quali il soggetto, almeno nelle società avanzate, può in parte opporsi. Se lo Stato offre scuole e università pubbliche, e borse di studio per frequentarle, sta all’individuo attivarsi per usufruirne e costruire la sua carriera e il suo inserimento sociale; e sta sempre all’individuo coltivare aspettative realistiche sulle proprie possibilità di inserimento e sui doveri dello stato nei suoi confronti: chi studia Infermieristica ha l’ambizione di diventare infermiere, e sa che non sarà miliardario.

Io credo che i diciottenni italiani non siano diversi dai loro coetanei francesi: credo che anche in Italia ci siano diciottenni che soffrono di condizioni di disagio e che sono capaci di proteste violente. Credo però che il discrimine si ponga tra i diciottenni che si assumono le proprie responsabilità, tra i quali quelli che io incontro all’università, e i diciottenni neet, che io non incontro, che né studiano né lavorano e che attribuiscono allo stato responsabilità che dovrebbero assumere loro, e che lo stato non potrebbe assumere senza diventare coercitivo.

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