di Carmelo Sant’Angelo

È sufficiente che una scintilla scocchi in una sperduta banlieue per incendiare tutta la Francia. Il copione si ripete ripercorrendo la stessa catena del triangolo del fuoco: la fonte d’innesco è l’uccisione o l’azione violenta delle forze dell’ordine ascrivibile a una matrice razzista; il comburente sono le immagini che circolano sui social media; il combustibile è la massa di diseredati, che vive in condizioni disagiate in aree residenziali a basso reddito. Identiche anche le modalità di risposta. È un problema di ordine pubblico e come tale viene combattuto, auspicabilmente con pugno duro per non farsi erodere consensi dalle formazioni di destra: più gendarmi, più controlli, compressione delle libertà civili, giro di vite su comunità islamiche oltranziste o sui centri che fanno proseliti propugnando tesi radicali.

Durante la rivolta del 2005, che si è consumata con tre settimane di roghi e saccheggi, Nicolas Sarkozy, allora ministro dell’Interno, contribuì a infiammare gli animi giurando di “ripulire le strade con una Karcher” (una marca di idropulitrici) e usando la parola “spazzatura”. Nel 2017, invece, la legge ha ampliato il ventaglio delle esimenti che consentono alla polizia di fare fuoco legittimamente. Un grande risultato per i sindacati della gendarmeria, che ha portato alla Francia anche il triste primato, in Europa, per morti ammazzati ai posti di blocco.

Non occorre essere un sociologo per capire che il malcontento serpeggia trasversalmente nella società francese, mostrandone le impudiche lacerazioni del tessuto sociale. La protesta non arriva solo dalle periferie ma è stata cavalcata anche dai gilet gialli, dai lavoratori contro la riforma delle pensioni e dal variegato mondo ambientalista. Le cause strutturali non vengono però mai affrontate, perché ciò richiederebbe un mutamento del paradigma dello sviluppo capitalistico. La povertà, la disoccupazione, il lavoro precario, la carenza di servizi pubblici, l’inadeguatezza delle politiche sociali, l’arretramento del welfare, l’abbandono delle periferie, la descolarizzazione sono problemi presenti in tutto l’Occidente, che esplodono in presenza di un detonatore: discriminazioni etniche, sentimenti di esclusione, disparità sociali.

Adesso che si avvicina il 14 luglio i rivoltosi francesi potrebbero mutuare le parole pronunciate, il 5 luglio del 1852, dall’ex schiavo, ora eminente leader anti-schiavista, Frederick Douglass di fronte alla Ladies’ Anti-Slavery Society of Rochester, nell’upstate New York. “Cittadini, scusatemi, permettetemi di chiedere: perché sono chiamato a parlare qui oggi? Cosa ho a che fare io, o coloro che io rappresento, con la vostra indipendenza nazionale? Quei grandi principi di libertà politica e di giustizia naturale, incarnati in quella Dichiarazione d’Indipendenza, sono forse estesi anche a noi? Lo dico con un triste senso di disparità fra noi. Io non sono incluso nel confine di questo glorioso anniversario! La vostra alta indipendenza rivela solo l’incommensurabile distanza fra di noi. Le benedizioni di cui voi oggi gioite non sono godute da tutti. La ricca eredità di giustizia, libertà, prosperità e indipendenza, trasmessa dai vostri padri, è condivisa da voi, non da me”.

Nella lunga orazione Douglass, dopo l’aspra denuncia, fa appello agli stessi principi americani che si festeggiano ipocritamente quel giorno: ai “grandi principi di libertà politica e di giustizia naturale” della Dichiarazione d’Indipendenza; alla stessa Costituzione “calpestata” – che invece, dice Douglass, “interpretata così come dovrebbe essere interpretata, è un glorioso documento di libertà”.

Anche oggi, le Costituzioni europee, nate come medicina ai totalitarismi, sono da tempo genuflesse alla dottrina liberista, che mortifica i diritti dei lavoratori e la dignità dei cittadini, o piegate, come giunchi, al vento bellico atlantista. Siamo sicuri che Liberté, Égalité, Fraternité siano ancora il cemento delle nostre società?

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