Il fattore tempo è e sarà ancora decisivo per valutare più correttamente ciò che è accaduto sabato 24 giugno, a un anno e quattro mesi esatti dall’aggressione di Putin, quando 60 chilometri di carri armati incolonnati si dirigevano su Kiev. Qualcosa di più incredibile del tentato blitz su Kiev è avvenuto sotto i nostri occhi increduli, anche se ripetutamente annunciato dall’escalation di minacciosi e truculenti messaggi ai vertici militari di Putin da parte di Evgeny Prigozhin, abituato a dare seguito alle parole, se non ad anticiparle con i fatti su cui ha edificato la sua terrificante fama.

La marcia interrotta su Mosca da parte del capo e padrone della milizia mercenaria più potente e temibile è stata in primo luogo “la rottura di un tabù, una sfida aperta al Cremlino da parte di un’oligarchia, un affronto che non ha precedenti” e dimostra “come la guerra in Ucraina sta cambiando gli equilibri interni al potere in Russia”. (Luca Steinmann, reporter di guerra, autore de Il Fronte Russo). Se quello che nelle prime ore si annunciava come un golpe o una “rivoluzione russa” anticipatrice di una possibile guerra civile è “rientrato” a 200 km dalla capitale, è comunque difficile ridurlo a una “rivendicazione sindacale, a “un gioco delle parti” senza seguito, a uno show finito a “tarallucci e vodka” o considerarlo “un successo di Putin” che avrebbe “rinsaldato la sua leadership” e confuso gli Usa”.

Al di là di cosa riservi il prossimo futuro alla brigata dei wagneriani, motore dei “successi” e autori delle peggiori efferatezze sul campo, e al loro capo fino a ieri intoccabile, appare innegabile che “il vertice russo ne esce squalificato” e che sia tuttora in corso un braccio di ferro, dagli esiti incerti per Putin, all’interno delle fazioni a lui più vicine ma su cui non esercita più un controllo decisivo.

A distanza di qualche giorno non credo che siano venute meno “le crepe profonde che minano la piramide del potere fino a minacciarne il crollo” né “la fragilità delle strutture di sicurezza e militari russe che non sono state in grado di prevenire un tentativo di golpe annunciato da mesi” evidenziate a caldo anche da Lucio Caracciolo (La Stampa del 25 giugno). Evgeny Prigozhin ha ribadito l’elementare verità, smentita oltre ogni evidenza da Putin, che la sua marcia “ha mostrato seri problemi di sicurezza in Russia” (nell’audio, datato 26 giugno da un luogo imprecisato).

In precedenza aveva osato smontare la narrazione putiniana – fatta propria anche dall’amico B., fedelissimo nonché “ardente pacifista” – dell’invasione difensiva per scongiurare le mire espansionistiche della Nato. Infatti, alla vigilia della rivolta derubricata a “marcia per la giustizia”, il vero alter ego operativo di Putin aveva diffuso un video esplosivo sulle autentiche ragioni dell'”operazione speciale” che secondo lui non è stata lanciata per salvare dal “genocidio” i russofoni del Donbass o per le reali minacce della Nato ma per assecondare le ambizioni di Shoigu e accoliti e soprattutto per garantire ai più alti livelli della cleptocrazia militare di lucrare sulle forniture militari.

E sempre nell’ultimo audio, mentre ha negato di aver pianificato un golpe, Prigozhin ha continuato a bersagliare i vertici militari russi, con particolare riguardo al duo Shoigu-Gerasimov, per ora blindato da Putin, e a ripetere che “se l’operazione speciale del 24 febbraio fosse stata affidata a forze addestrate come la Wagner sarebbe potuta durare un giorno“. A una settimana dalla rivolta fallita che ha aperto la strada “all’imponderabile” sono iniziate le purghe all’interno dell’élite militare per “ripulirla” dai numerosi simpatizzanti della Wagner infiltrati nei ranghi più elevati. Emblematico è “il giallo” sulla sorte del generale Surovikin, comandante dell’aviazione russa e già a capo delle truppe russe in Ucraina, “in buoni rapporti con Prigozhin”, di cui ha condiviso brutalità e spietatezza e, secondo fonti molto accreditate, a conoscenza dei suoi piani di ribellione. Per avere sue notizie, dato che è uscito di scena dal fatidico sabato 24 giugno, il portavoce di Putin ha consigliato di “contattare il ministro della difesa” mentre si accavallano le ipotesi di “semplice fermo per essere interrogato” o di accuse di cospirazione nella rivolta, entrambe più credibili delle rassicurazioni che “non gli è successo niente”.

Di Prigozhin si sa solo che è o sarebbe in Bielorussia in un albergo senza finestre, precauzione che potrebbe non essere sufficiente, sotto “la tutela” di Lukashenko, dove l’avrebbero raggiunto almeno ottomila mercenari – che potrebbero diventare molti di più entro il primo luglio, giorno in cui scade la possibilità di arruolarsi con contratto regolare nell’esercito della Federazione Russa. E i paesi limitrofi, dalla Polonia ai Paesi Baltici, non si sentono particolarmente rassicurati dalla compresenza ai confini di armi nucleari tattiche russe e della brigata di “terroristi” che la Russia ha sempre ufficialmente negato di armare e finanziare lautamente fino a quando ha ritenuto di doverli liquidare.

Ma la pratica di smaltimento della Wagner può risultare per Putin molto più dolorosa di quanto abbia previsto, e potenzialmente distruttiva. E non solo perché la Wagner è stata la protagonista assoluta “nell’operazione speciale”, con gli orrori plateali praticati contro civili e minori della grande offensiva d’inverno in Donbass e della conquista delle ceneri di Bakhmut. L’uscita dei mercenari dall’Ucraina non è solamente una perdita incalcolabile in termini strategici, così come la teorica integrazione di miliziani Wagner nei ranghi regolari dell’esercito sarebbe un’enorme fonte di tensioni e conflittualità interna.

Sul piano sostanziale della strutturazione del potere putiniano, per come l’avevamo conosciuto finora, il binomio Putin-Prigozhin si era mostrato un monolite non scalfibile, un’erma bifronte che non poteva essere scissa. E non va nemmeno sottovalutata la popolarità interna acquisita da Prighozhin, stando almeno all’accoglienza di benvenuto da parte di molti abitanti di Rostov ai carri armati che marciavano verso Mosca. Ora Putin, dopo aver rivelato suo malgrado il volto della paura all’indomani dello “spargimento di sangue evitato”, non si sa bene con quali mezzi di “pressione” sui rivoltosi, ostenta il controllo che non c’è ed è andato in Daghestan per il primo bagno di folla.

Come ha evidenziato Michel Eltchaninoff, filosofo francese di origini russe che ha indagato i fondamenti culturali della guerra in Ucraina nel suo libro Nella testa di Putin, se non è probabile che ci possa essere presto una rivoluzione “Dobbiamo fare attenzione ai segnali nell’opinione dei russi. Putin ha settant’anni, è al potere da ventitré, in questa occasione si è mostrato fragile, ha trasmesso confusione, improvvisazione”. Quanto agli oppositori alla guerra di Putin “o sono in prigione o sono espatriati. Prigozhin ha messo in opera il solo modo di opporsi alla guerra in Russia e cioè di farlo con le armi“. (La Stampa, 30 giugno 2023)

Per la prima volta abbiamo visto lo zar nudo e la sua propaganda vana. Un evento che sembrava inimmaginabile e che è potuto accadere perché c’è un popolo che sta continuando eroicamente a resistere e ci sono le deprecate democrazie occidentali, che hanno capito di doverlo sostenere con le sanzioni e con le armi.

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