Dopo l’ok dell’Europarlamento, con il via libera di lunedì 29 aprile il Consiglio europeo – favorevole anche il governo italianoha messo l’ultimo sigillo sul nuovo Patto di stabilità chiudendo 17 mesi di trattative tra le capitali e le istituzioni comunitarie. Che hanno partorito un compromesso giudicato da tutti gli osservatori peggiorativo rispetto alla proposta iniziale della Commissione Ue , mirata a semplificare le regole eliminando i parametri più cervellotici e dando più spazio di manovra agli Stati membri. Dai negoziati è uscito infatti un testo pieno di paletti e “salvaguardie destinati a ridurre lo spazio per gli investimenti proprio mentre i 27 dovrebbero farne per 500 miliardi solo per le transizioni verde e digitale, stando alle stime di Mario Draghi. Con quali conseguenze per l’Unione e per l’Italia? La Bce prevede sicure ripercussioni negative sulla crescita dell’Eurozona. E Roma dovrà mettere in conto tagli per oltre 10 miliardi l’anno.

Cosa cambia rispetto al vecchio Patto – La Commissione nel novembre 2022 aveva proposto che il percorso di aggiustamento fiscale diventasse “personalizzato”, cioè cucito su misura sulle condizioni di ogni Paese, e adottasse la spesa primaria netta (quella depurata dagli interessi sul debito) come unico parametro di riferimento per la sorveglianza sui conti. La versione finale della riforma conferma i piani personalizzati, ma in aggiunta impone un set di rigidi limiti numerici per garantire che il debito/pil imbocchi un sentiero discendente e il deficit venga portato sotto il 3%. Le richieste, va detto, sono più realistiche rispetto a quelle abnormi previste dal vecchio Patto, vedi la mai applicata riduzione del debito di un ventesimo all’anno. Ma proprio per questo saranno imposte con più rigore, al netto dei possibili margini che come sempre diventeranno oggetto di trattativa politica. Altro che l’inesistente “maggiore flessibilità per 35 miliardi” di cui parlava a marzo la premier Giorgia Meloni, subito prima che tutta la sua maggioranza disconoscesse i nuovi parametri negoziati dal governo.

Per l’Italia un “aiutino” a tempo determinato – L’Italia e una dozzina di altri Paesi inizieranno ad applicare il Patto riformato da sorvegliati speciali. Perché dopo le Elezioni europee sarà aperta nei loro confronti una procedura di infrazione per deficit eccessivo. Il Piano fiscale strutturale, da presentare a settembre sulla base della traiettoria di andamento della spesa suggerita dalla Commissione, dovrà quindi prevedere per prima cosa una correzione strutturale pari ad almeno lo 0,5% del pil ogni anno con cui riportare il disavanzo sotto il 3%. Per Roma significa una stretta da oltre 10,5 miliardi ai prezzi del 2024. Fino al 2027 la Commissione potrà rivedere al ribasso quell’obiettivo per tener conto dell’aumento della spesa per interessi sul debito: concessione rivendicata dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, visto che l’Italia l’anno prossimo dovrà sborsare per quella voce quasi 90 miliardi. Ma c’è poco da festeggiare, per diversi motivi.

…e lo sconto non è garantito – Se anche l’aggiustamento richiesto si fermasse allo 0,4% del pil, saranno necessari dolorosi tagli di spesa o aumenti di tasse. E per prorogare anche nel 2025 le misure bandiera a cui il governo non vuole rinunciare, prima tra tutte il taglio del cuneo fiscale, con la prossima legge di Bilancio occorre trovare altri 20 miliardi. Impossibili, stavolta, da finanziare con il solito scostamento di bilancio. Non solo: l’occhio di riguardo sugli interessi, valido solo fino alle prossime elezioni politiche italiane, è arrivato a scapito dell’agognata e ben più rilevante esclusione dal deficit della spesa per investimenti (golden rule). In cambio di un po’ meno rigore nel breve periodo, l’Italia ha accettato insomma una disciplina più severa nel lungo termine. Non basta: non è nemmeno detto che lo sconto, nel breve, arrivi davvero. Come ha fatto notare l’Ufficio parlamentare di bilancio, lo 0,5% è “lo sforzo minimo richiesto”. Ma il criterio vincolante sarà il più restrittivo tra questo e l’aggiustamento necessario per garantire la riduzione del debito/pil, cosa che “potrebbe comportare aggiustamenti annuali maggiori di 0,5 punti percentuali di Pil”.

Cosa succede dal 2025 – Una volta riportato il deficit/pil sotto il 3% si esce dal cosiddetto braccio correttivo del Patto e si torna nel braccio preventivo. I Paesi dovranno seguire i percorsi di aggiustamento personalizzati visti all’inizio, basati sull’andamento della spesa depurata dal cofinanziamento dei programmi europei. Di norma si tratterà di piani della durata di quattro anni, che potranno però essere allungati a sette a fronte dell’impegno a realizzare – anche dopo la fine del Recovery plan – investimenti e riforme monitorati da Bruxelles. Il disavanzo strutturale, cioè la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito, dovrà essere in ogni caso ridotto dello 0,4% annuo se l’aggiustamento quadriennale e 0,25% se l’orizzonte è di sette anni. In contemporanea tutti i Paesi dovranno rispettare i paletti voluti dai “frugali”: se il rapporto debito/pil è sopra il 90% bisognerà farlo scendere di almeno l’1% l’anno rispetto al prodotto e il deficit/pil strutturale dovrà essere portato sotto l’1,5% annuo, la metà del limite ufficiale del 3%, in modo mantenere un cuscinetto da utilizzare in caso di necessità. Il ministro Giorgetti nel Def scrive che Roma punta a ottenere l’allungamento a sette anni, dunque oltre l’orizzonte di vita del governo. Questo comporterebbe una stretta da “soli” 5,5 miliardi annui, che potrebbe però non bastare per rispettare il requisito di ridurre il debito/pil di un punto all’anno.

Tagli tra gli 11 e i 13 miliardi l’anno – Infatti, sempre secondo l’Upb, il reale aggiustamento minimo richiesto dalle nuove regole nel periodo 2025-2031 sarà pari a 0,5-0,6 punti di pil a seconda dell’andamento della crescita: tra gli 11 e i 13 miliardi, se il pil rispetterà le previsioni del Def. La golden rule sarebbe stata d’aiuto, ma non se n’è fatto nulla. Le spese per la difesa saranno considerate “fattore rilevante” nel calcolo dei piani di rientro, il che lascia comunque a Bruxelles molta discrezionalità. L’organismo indipendente che valuta il rispetto delle regole di bilancio chiosa: “Data la necessità di ridurre il debito attraverso un miglioramento del saldo primario strutturale di bilancio, il tasso di crescita della spesa primaria netta dovrà essere inferiore al tasso di crescita del Pil potenziale nonostante la prevista crescita delle spese connesse all’invecchiamento della popolazione”. Auguri a chi dovrà far quadrare i conti senza falciare sanità e welfare.

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