Uno degli effetti del Fiscal Compact, introdotto nel 2012 in Costituzione con la modifica dell’art. 81, è stata la creazione obbligatoria di un organismo indipendente con lo scopo di monitorare e valutare l’impatto delle politiche pubbliche, in soldoni di verificare la credibilità e l’efficacia delle politiche fiscali italiane in chiave europea. Per l’Italia a questo scopo è stato creato l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UpB). Quest’organismo produce dal 2014 relazioni e rapporti sulla finanza pubblica ed è stato, come si può ben immaginare, nel corso del tempo una spina nel fianco dei governi e della loro retorica finanziaria.

L’ultima recentissima fatica dell’UpB è stato un rapporto sulla politica di bilancio che contiene anche una preziosa analisi che confronta gli effetti redistributivi del Reddito di Cittadinanza (RdC) introdotto dal Governo Conte nel 2019, ora in via di abolizione, con quelli dell’Assegno di Inclusione (AdI), il nuovo strumento pensato da Meloni e dal suo think tank. Nella lotta alla povertà e all’esclusione sociale, l’AdI del governo conservatore rappresenta un passo avanti oppure un passo indietro? La relazione dell’UpB ci aiuta, anche con l’aiuto di preziose simulazioni, a chiarire alcuni aspetti interessanti.

Una prima osservazione, che può sembrare banale, è che il RdC non è stato abolito. La destra conservatrice si era presentata alle scorse elezioni con progetti fieramente liquidatori su questa misura ma poi, evidentemente, la rotta è stata completamente cambiata. Non sorprende quindi che il nuovo AdI si strutturi in maniera molto simile al vecchio reddito di cittadinanza. Non di abolizione si tratta, ma di una sua brutta copia. In effetti, molti requisiti economici sono gli stessi. Con il RdC prima e poi con l’AdI, anche l’Italia ha inaugurato delle politiche generali di contrasto alla povertà. Senza dire che il progenitore di questo intervento è stato il Rei, il reddito di inserimento del governo Gentiloni. Quindi abbiamo una misura che è sopravvissuta all’intero spettro della classe politica. Poi ognuno ha certato di declinare a suo modo il provvedimento.

Se l’impianto generale è lo stesso, tuttavia la destra conservatrice ha introdotto importanti modifiche che hanno avuto come effetto quello di ridurre in maniera sostanziale la platea dei beneficiari. La restrizione è ottenuta vincolando il sussidio alla presenza nel nucleo familiare di soggetti tutelati, per usare l’espressione adottata, cioè di disabili, over 60 oppure minori. Tutti gli altri nuclei familiari sono di fatto esclusi dalla nuova misura. Di conseguenza, secondo le simulazioni dell’UpB i nuclei beneficiari in condizione di povertà si ridurrebbero a poco più di 690.000 rispetto ai quasi 1,2 milioni del RdC, cioè appena il 58%. Si tratta di circa 823.000 individui che usciranno dalla copertura della misura di contrasto alla povertà, con una perdita mensile di circa 535 euro.

L’idea sbandierata dalla retorica governativa è che queste centinaia di migliaia di persone private del sussidio economico si alzerebbero dal divano sul quale pare siano comodamente sedute e comincerebbero a cercare attivamente lavoro. Una doverosa misura anti fannulloni quindi. È un’ipotesi credibile? Non sembra, visto che l’80% degli occupabili che ricevono il RdC non hanno svolto nessun lavoro negli ultimi tre anni e risiedono nelle regioni meridionali, dove notoriamente il lavoro è risorsa scarsa. Da questo punto di vista la riforma Meloni, più che spingere le persone a cercare lavoro, le affossa nella loro condizione di indigenza cronica, portandole magari ad accettare condizioni di lavoro particolarmente svantaggiose a favore di imprenditori senza scrupoli.

Per salvare un po’ la faccia, il governo da settembre 2023 si è inventato il contratto di supporto per la formazione e il lavoro, un contributo di 350 euro per chi frequenta dei corsi di formazione, come se la disoccupazione potesse dipendere dalla mancanza di qualificazione dei lavoratori e non dai problemi più strutturali dell’economia. Ma in questo modo la scomparsa del RdC è resa meno traumatica e inoltre si indirizzano altre risorse al settore ipertrofico e parassitario della cosiddetta formazione.

Come terzo elemento da considerare, occorre guardare anche agli effetti sulla finanza pubblica. La riduzione molto consistente della platea dei beneficiari porta un certo sollievo alle casse dello Stato, con un risparmio a regime di 2,5 miliardi su base annua. Come saranno utilizzate queste risorse ottenute sulla pelle delle politiche di contrasto alla povertà? Qui il governo procede spedito: saranno destinate ad ampliare i privilegi fiscali dei contribuenti in regime di flat tax. La tassa piatta con l’aliquota del 15% su reddito forfettario degli autonomi sta generando una perdita molto ingente per le casse dello Stato, e conseguentemente un guadagno notevole per i circa 2 milioni di professionisti che vivono nei paradisi fiscali nostrani. Molti dei quali non avrebbero bisogno di questo reddito di cittadinanza fiscale. Togliere 500 euro mensili in nome di un preteso efficientismo economico, per darli a che ne guadagna mensilmente almeno il quadruplo, non sembra andare nella direzione di una maggior equità sociale.

Partita con il progetto di abolire il RdC, la destra lo ha rivisto per tutelare gli interessi dei datori di lavoro, inventandosi l’AdI, una misura che ne costituisce una brutta copia. Più che destra sociale, attenta alle condizioni di chi è in difficoltà economica, è una destra servile, sempre prona alle esigenze corporative del mondo dell’impresa. Per questo ha eliminato quel piccolo e fragile reddito universale di base per quasi un milione di persone, elemento contenuto in nuce nel progetto di reddito di cittadinanza grillino e che ci avvicinava ad altre esperienze europee. E lo ha fatto in maniera arrogante, spostando le risorse risparmiate verso le sue facoltose clientele elettorali. Quali saranno i risultati di questa miope ma feroce macelleria sociale, come si sarebbe detto un tempo, è ancora presto per capirlo; ma prima o poi di sicuro si manifesteranno.

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