L’intervista della sottosegretaria all’Istruzione, l’avvocata Paola Frassinetti, sul liceo del Made in Italy su un giornale amico di alcuni giorni fa è risultata un pezzo quasi umoristico, almeno per chi conosce un poco la realtà scolastica. La lontananza tra chi vive nel mondo della scuola e chi dovrebbe governarlo è così grande da far nascere un effetto comico, anche se nel fondo molto amaro. Veramente era difficile inanellare tante inesattezze, superficiali banalità e adulazione verso il potere costituito in una breve intervista. In questo ci vuole del talento. Ecco alcuni punti.

Intanto che cos’è il made in Italy per il Governo di destra? La vice-ministra del MIM non ha dubbi: sono le eccellenze del nostro territorio. Quali per l’esattezza? Indica le due sempre citate: il settore agroalimentare e il settore della moda. Per la destra nostrana nel mondo siamo rilevanti per il prosecco e i foulard di lusso, tanto per semplificare. Diciamo che il made in Italy della destra è il sistema delle 3F: food, fashion e furniture, sempre per usare l’italiano internazionale. Peccato che, per fortuna nostra, la nostra economia non è il paese delle 3F. Se guardiamo alla realtà, e cioè a cosa produce ed esporta il Made in Italy, il cibo è al decimo posto, i mobili addirittura al quindicesimo, solo il tessile rientra tra i primi dieci, ma non è nei settori top five. L’Italia primeggia a livello internazionale nella farmaceutica, nella meccanica o nella chimica, tanto per dire, cioè in settori lontanissimi dalla retorica meloniana. Da dove derivi allora l’idea quasi bucolica che la forza economica dell’Italia sia legata alle 3F è l’ennesima fake news dei conservatori, semplicemente una mistificazione ideologica dal sapore casalingo e passatista.

Andiamo avanti. Lo scopo dichiarato di questo nuovo liceo è quello di preparare i manager del futuro, dice la sottosegretaria, figura di cui le eccellenti filiere italiane hanno bisogno. Le finalità formative centrali sono di nuovo conio come le seguenti: a) sviluppare, sulla base della conoscenza dei significati, dei metodi e delle categorie interpretative che caratterizzano le scienze economiche e giuridiche, competenze imprenditoriali idonee alla promozione; b) possedere gli strumenti necessari per la ricerca e per l’analisi degli scenari storico-geografici e artistici e delle interdipendenze tra fenomeni internazionali, nazionali e locali, con riferimento all’origine e allo sviluppo degli specifici settori produttivi del Made in Italy. Materie che nella loro nebulosità saranno insegnate evidentemente non da docenti laureati, ma dagli imprenditori italici, meglio se piccini, che finalmente potranno salire in cattedra anche senza alcun diploma. La vecchia e faticosa economia aziendale la possiamo mandare in pensione, ora serve solo un marketing rustico più che strategico.

Naturalmente il manager del futuro deve avere anche una preparazione filosofica, trovarsi a suo agio con la geografia, conoscere bene almeno due lingue e dunque alcune materie sanno insegnate nella lingua veicolare. Tutto questo senza aggravio di orario. Questo significa che l’unica materia coinvolta in questa rivoluzione liceale sarà lo striminzito programma di economia e diritto con le sue tre ore settimanali che verrà stravolto. In effetti è il liceo economico che verrà purtroppo abolito e sostituito con il liceo del Made in Italy in nome del nuovo nazionalismo scolastico. Non è chiaro se poi questi manager in erba andranno all’università per affrontare studi più corposi. Dall’intervista parrebbe di no perché forse manager si nasce. D’altronde la piccola e piccolissima impresa italiana non ha bisogno di manager, ma di carpentieri oppure fresatori, ma vanno bene per gli aspetti gestionali anche i liceali Made in Italy che costano molto meno di un laureato.

Non poteva mancare l’esaltazione retorica della vecchia alternanza scuola-lavoro, ora acronimo PCTO, altro fiore all’occhiello della destra produttivistica. E qui sono d’accordo, ma solo parzialmente. Essendo stato uno di quegli studenti che piacciono al modello Brugnaro-Veneto, ho sempre lavorato d’estate per mantenermi gli studi sia alle superiori che all’università. Ma appunto d’estate e non durante il periodo scolastico. Percependo poi uno stipendio pieno e non da stagista. Questa è l’unica alternanza scuola-lavoro utile e decente.

Come sembra accogliere il mondo della scuola l’ultimo venuto? La sottosegretaria non ha dubbi: con grande entusiasmo italico. È un pezzo della rivoluzione culturale meloniana che tutti attendevano. Pare, ma aspettiamo le iscrizioni, che non solo le famiglie siano entusiaste dei percorsi agroalimentari o della moda parati a festa da liceo, la scuola nobile e alta, ma anche che ci sia la fila dei dirigenti scolastici che vogliono questa strepitosa innovazione. D’altronde come non applaudire ad un progetto che, cito, “è nato da una intuizione del nostro premier” – affermazione oltremodo adulatoria oltre che sessista.

Comunque, siccome c’è ancora libertà di scelta, a coloro che vogliono seriamente impegnarsi nelle materie economiche e giuridiche per iniziare un vero percorso manageriale mi sento di consigliare ancora la vecchia ragioneria, ora Amministrazione Finanza e Marketing. Se poi, come richiama il titolo dell’intervista, con il liceo Made in Italy miglioreremo le esportazioni, qui credo non ci si niente da migliorare. Ogni anno migliaia di laureati fuggono dalla asfittica economia Made in Italy per ottenere prospettive migliori in altri paesi. Oltre al prosecco esportiamo bravi laureati e laureate, e non è una cosa che fa onore al Made in Italy, anche quello tronfio della destra. Il liceo della Meloni ci fa rimpiangere la scuola berlusconiana delle tre I: inglese, informatica e impresa. Il che la dice lunga sulla povertà delle proposte scolastiche della destra nazionalista che ci governa.

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