Per due motivi non dovrei scrivere queste righe: prima di tutto perché non sono una critica letteraria, secondo perché di Cormac McCarthy, morto all’età di 89 anni, non ho letto tutto, e soprattutto non ho letto l’ultimo libro pubblicato in Italia, Il passeggero (Einaudi 2023).

Ma ci sono anche due motivi che mi spingono a farlo: il primo è che leggendo La trilogia della pianura e La strada ho provato sentimenti talmente intensi (la paura, l’angoscia, la tenerezza, l’ammirazione, la rabbia e il fastidio) da considerarli parte di un’esperienza concreta e non frutto della lettura (finito di leggere La strada, per intenderci, ho stipato in uno sgabuzzino una enorme quantità di acqua minerale e di scatole di fagioli: chi ha letto il romanzo capisce perché, chi non lo ha letto sappia che si tratta del racconto perfetto e glaciale di un mondo in cui la catastrofe ha non solo bruciato tutto, ma reso gli esseri viventi a caccia di cibo e di acqua molto pericolosi. L’uomo e il bambino protagonisti del romanzo si muovono in questo inferno, minaccioso e nero di cenere e fame).

Secondo: tra le pagine di Cormac McCarthy ho provato la vertigine degli spazi sconfinati e la minuziosa claustrofobia di dialoghi fittissimi intorno ai massimi problemi dell’esistenza, la morte, il desiderio, l’amore. Dunque lo considero non solo un bravissimo scrittore (padroneggia la tecnica narrativa con sapienza invisibile) ma un grande scrittore, capace cioè di farsi che dopo la lettura non ci si senta più gli stessi.

Rintraccio, ora che voglio scriverne, i segni a matita, i punti esclamativi, le riflessioni annotate e anche i punti interrogativi dove il testo mi sfuggiva, come un magnifico rapace trattenuto per un istante, con timore, nella mano fragile e terrena. Inutile il tentativo di svelarne il mistero e il punto interrogativo rimane veritiero ancora adesso a cinque anni dalla prima lettura. Non mi resta che, di nuovo, ammirare il volo e farmi trascinare a quelle altezze da cui si abbraccia il paesaggio e le nuvole.

Quando John Grady in Città della pianura, il terzo romanzo della Trilogia della frontiera (gli altri due sono Cavalli selvaggi e Oltre il confine) chiede al cieco, detto il Maestro, di fare da padrino per le sue nozze con Josephina, la prostituta brasiliana malata di epilessia di cui è perdutamente innamorato, McCarthy scrive un dialogo, a mio parere memorabile, sull’amore. Dopo aver disquisito sulla coscienza universale e sul fatto che noi esseri umani non siamo in grado di vedere il mosaico del mondo nel suo insieme ma solo frammenti, Grady chiede al cieco dunque di fare da padrino a Josephina che non ha parenti (i dialoghi di questo romanziere non sono mai fra virgolette, a volte la struttura aiuta a capire chi domanda e chi risponde, a volte vi troverete incerti, ma proseguendo docili e fiduciosi nella lettura tutto si fa chiaro).

Il cieco, dopo aver raccontato la storia bellissima di un uomo costretto a fare da padrino al figlio del suo nemico, chiede a John Grady cosa ne pensi.

Non lo so. Nemmeno io. So solo che qualunque atto venga compiuto senza cuore verrà smascherato, alla fine. Qualunque gesto. Rimasero in silenzio. Intorno a loro il locale era tranquillo. John Grady guardava l’acqua imperlare il suo bicchiere, intatto davanti a lui. Il cieco riappoggiò il proprio bicchiere sul tavolo e lo allontanò da sé.

Quanto amate questa ragazza?
Morirei per lei.
(…) L’alcahuete (il protettore) ne è innamorato.
(…) Sì.
Tacquero. nella sala principale erano arrivati i musicisti, e ora stavano preparando gli strumenti. John Grady fissava il pavimento. Dopo un poco sollevò lo sguardo: (…) John Grady si appoggiò allo schienale della sedia. Rimase immobile, in silenzio. Guardò la figlia del cieco. Lei lo osservava. Silenziosa. Gentile. Imperscrutabile. Sa che Eduardo (il protettore) è innamorato di lei?
Sì.
Lei crede che Eduardo la ucciderà, disse John Grady
Il cieco annuì.
Credete che la ucciderà?
Sì, disse il maestro. Credo che la ucciderà.
È per questo che non volete farle da padrino?
Sì. È per questo.
Perché ne sareste responsabile?
Sì.
I ballerini danzavano con movenze rigide e cerimoniose sul pavimento di calcestruzzo accuratamente spazzato e lucidato. Danzavano con grazia d’altri tempi, come personaggi di un film.
Cosa pensate che dovrei fare?
Non sono in grado di dare consigli.
Non volete.
No. Non voglio.
Io la lascerei se pensassi di non poterla proteggere.
Forse.
(…) John Grady osservò quel volto passivo. Chiuso al mondo come il mondo era chiuso a lui.
Cosa intendete dirmi?
Non ho niente da dire.
È innamorato di lei.
Sì.
Però la ucciderebbe.
Sì.
Capisco.
Forse. Lasciate che vi dica solo questo. Il vostro amore non ha amici. Voi credete che ne abbia ma non è così. Nessun amico. Forse nemmeno Dio.
E voi?
Io non mi metto nel conto. Se potessi vedere cosa riserva il futuro ve lo direi. Ma non posso.
Voi mi considerate uno stupido.
No. No davvero.
Se anche fosse non me lo direste.
No, ma non mentirei. Non lo penso. Non l’ho mai pensato. Un uomo è sempre nel giusto quando insegue la cosa che ama.
Anche se questa cosa lo uccide?
Penso di sì. Sì. Anche in quel caso.

Che altro aggiungere, quando uno scrittore è capace di costruire un dialogo così?

In Oltre il confine c’è la storia di Billy Parham, sedicenne che si allontana da casa in compagnia del suo cavallo, di un fucile e di una lupa che ha catturato in montagna. La sua destinazione è il Messico.

Durante un tentativo di guadare un fiume, Billy e la sua piccola brigata vengono intercettati da due guardie e condotti in città; la lupa gli viene sequestrata (gli uomini sono sempre più crudeli di qualsivoglia bestia selvatica). La lupa viene tenuta prigioniera e l’indomani portata alla fiera per metterla in mostra e alzare un po’ di dollari. Billy segue la carovana, è bene accetto da quella gente e finalmente riesce, pagando, a entrare nel baraccone dove la lupa è incatenata.

La lupa era coricata sul pianale del carro in un giaciglio di paglia. Non aveva più il lazo attaccato al collare, bensì una catena assicurata alla sponda del carro, che le consentiva solamente di alzarsi in piedi. In un angolo, sulla paglia, c’era una ciotola di terracotta che forse aveva contenuto dell’acqua. Appoggiato alla fiancata del carro c’era un ragazzo, che teneva una frusta sulla spalla. Quando vide entrare quel che riteneva essere uno spettatore pagante, si alzò e prese a pungolare la lupa con la frusta e a richiamarla con un fischio. Lei ignorò i richiami. Se ne stava accucciata su un fianco, inspirando ed espirando con calma. Billy guardò la zampa ferita, si appoggiò al carro e la chiamò. Lei si alzò immediatamente, si voltò e si mise a fissarlo con le orecchie dritte. Il ragazzo con il frustino lo osservò. Le parlò a lungo e, dal momento che il guardiano non capiva che cosa diceva, le disse ciò che aveva nel cuore. Le fece delle promesse e le giurò che le avrebbe mantenute. Che l’avrebbe portata tra le montagne, dove avrebbe trovato altri della sua specie. Lei lo guardò con quei suoi occhi gialli, che tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo.

Questa ultima frase l’ho allora sottolineata più volte, non solo perché la sentivo vicina, ma perché esprimeva perfettamente lo stile secco e infiammato di questo scrittore. McCarthy descrive con distanza e indifferenza le sofferenze sia di Billy che della lupa e poi improvvisamente, come una zampata, con due parole, fa sentire il dolore, come se lui stesso ne fosse intriso fino alle viscere. Della crudeltà e spietatezza del male lui si fa carico e ce le restituisce con potenza inarrivabile, grazie alla completa immunità da qualsivoglia inclinazione sentimentale.

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