I giovani non hanno più voglia di lavorare. E’ ormai una delle affermazioni che ciclicamente impatta sul dibattito pubblico. Non passa giorno che sui media non sia presente un imprenditore che punta il dito contro questi presunti giovani che non vogliono più fare i camerieri, i cuochi, gli operai, gli artigiani, i commessi, gli scaffalisti e chi più ne ha più ne metta. Una tesi smentita da un recente rapporto Eures che racconta come fra gli under 35 domini il lavoro precario nel 67% dei casi e con retribuzioni decisamente più basse della media, meno di mille euro al mese per circa il 40% del campione. Non solo: secondo lo studio del think tank britannico Resolution Foundation, se i figli della generazione X (1966 -1980) hanno raggiunto i 30 anni con un reddito più alto del 30% rispetto ai baby boomers (1946-1965), per le generazioni successive il trend è totalmente invertito. Gli under 35 sono più poveri dei predecessori in media in ogni Paese Europeo. E in Italia questo gap è decisamente più marcato che altrove.

Lo studio di Fairie – Nonostante ogni studio a disposizione descriva una situazione drammatica per le nuove generazioni, la litania contro i giovani sfaticati sembra non avere fine, ma soprattutto sembra che fino a qualche anno fa gli ex giovani, cioè i figli del baby boom o della generazione X, abbiano passato la loro vita a lavorare a qualsiasi condizione per il puro piacere di farlo, senza mai rifiutarsi. Ilfattoquotidiano.it ha dunque deciso di replicare l’esperimento del ricercatore Paul Fairie, che nell’estate 2022 pubblicò un lungo thread su Twitter raccontando “la breve storia del nessuno vuole più lavorare” attraverso gli screenshot di vecchi articoli giornalistici pubblicati nel corso dei decenni dalla stampa anglosassone. In questo caso la ricerca riguarda gli archivi storici de la Stampa e la Repubblica e il risultato non è diverso da quello di Fairie: già più di 60 anni fa i quotidiani accusavano le giovani generazioni di non aver alcuna predisposizione al duro lavoro. A quelle giovani generazioni appartengono i nostri nonni, i nostri zii, i nostri genitori.

“Nessuno vuole fare il cuoco” – L’8 settembre 1959, La Stampa pubblica un articolo intitolato “Pochi giovani vogliono apprendere l’oscura e raffinata arte del cuoco”, nel quale viene raccontato che i ragazzi in ambito alberghiero preferiscono fare i barman o i portieri d’albergo mentre gli aspiranti cuochi sono ormai una minoranza, nonostante sia un mestiere di estremo prestigio e con potenzialità di carriera non indifferenti. Facciamo un salto avanti fino al 29 ottobre 1977, sempre La Stampa lancia l’allarme: “In Italia sono 196 giovani disposti a lavorare in campagna”. Nell’articolo si racconta che su più di quarantaseimila posti disponibili, in tutto il Paese ci sarebbero solamente 196 giovani disposti a lavorare nei campi e che i mungitori, che possono guadagnare fino a 500mila lire il mese, arrivano dalla Jugoslavia. “A volte dicono di voler lavorare in campagna, poi si scopre che intendevano un lavoro da impiegato in qualche organizzazione agricola. Altri sono attratti da ragioni ideali, ma non immaginano le difficoltà, e al primo ostacolo scappano”, si legge.

“Garantiscono la scolarizzazione di massa” – Sempre nel 1977, viene pubblicato l’articolo: “I giovani premono per il posto ma in settori saturi”. “Non è vero che non ci sia offerta di lavoro da parte del sistema produttivo, ma è un tipo d’offerta che non s’incontra con la domanda, oggi costituita in massima parte da diplomati e laureati”, dichiarava all’epoca Renato Buoncristiani, vicepresidente di Confindustria. “Da anni vado dicendo che occorre una preparazione scolastica più adeguata alla vita. Invece si è garantita la scolarizzazione di massa, ma priva di prospettive, non programmata. Senza tanta demagogia, c’è un momento nella scuola in cui si dovrebbe imporre la selezione”, rilanciava il segretario nazionale della Cisl Luigi Macario.

“Rifiutano i lavori offerti” – Passiamo al 4 novembre 1978, sempre La Stampa si domanda: “Perché molti giovani rispondono negativamente alle offerte di lavoro dell’Ufficio di collocamento?”. “A Roma ci sono quasi 63 mila giovani senza occupazione: eppure di fronte a 296 posti messi a disposizione dal Comune hanno risposto soltanto in 67”, racconta il quotidiano, ponendo l’accento sulle ragioni dei rifiuti: non è una questione di mancanza di voglia di lavorare, il problema sono le condizioni proposte. “Occorre modificare la concezione assistenziale della legge sull’occupazione giovanile. E vanno riviste anche le penali per chi rinuncia all’incarico perché attualmente se uno rifiuta il lavoro che gli viene offerto, tutto ritorna normale e a breve distanza di tempo può presentarsi un’occasione migliore, un posto più sicuro e redditizio”, spiegava il direttore generale dell’ufficio del lavoro Bartolomeo.

“Non vogliono fare sacrifici” – Surreale l’approfondimento pubblicato nel maggio del 1980: “Giovani, belli e mendicanti. I nuovi miserabili che al lavoro preferiscono l’elemosina”. “Rifiutano i sacrifici, restringono i consumi, si avvolgono in un malinteso egocentrismo”, scriveva la cronista Lidia Ravera nell’articolo dedicato ai giovani che avevano scelto di vivere da senzatetto. “Lavorare non è una cosa da persone. Guarda: lavorare ammazza. Fai una cosa di cui non ti frega niente, che non ti fa star bene. E in cambio di cosa?”. “Di soldi”. “E’ una cosa da stronzi, fare in cambio di soldi”. “Allora gli operai sono stronzi”. “No, nun è che so’ stronzi. E’ che so’ poveracci. Non sanno vivere. Operaista non lo sono mai stata, ma reprimo a stento la voglia di pigliare a calci il mio giovane interlocutore”, chiosava Ravera.

La fabbrica dei disoccupati – Passiamo al 1983, con l’articolo: “La fabbrica dei giovani disoccupati”. Nell’articolo un lungo j’accuse contro i giovani da parte degli imprenditori: “Adagiarsi nella routine è uno del difetti del nostro Paese: i giovani che hanno trovato un posto vogliono essere certi che a una certa ora si va a casa, che il weekend è sempre e comunque sacro e Inviolabile”. Dichiarazioni pressoché identiche a quelle rilanciate dalla stampa odierna ogni qualvolta viene data voce alle lamentele dell’imprenditore di turno. “Purtroppo, spesso ci si trova di fronte a due categorie di giovani: una di spocchiosi, quelli cioè che sono convinti di aver appreso tutto sui banchi dell’università: un’altra di disillusi e rinunciatari a causa del lungo peregrinare olla ricerca del primo impiego”, conclude l’articolo.

La soluzione? Rivedere i sussidi – Ma facciamo un balzo in avanti e passiamo al 1994. Anche in questo periodo uno dei principali allarmi rilanciati dai quotidiani nazionali è quello relativo alla disoccupazione di giovani e donne. La soluzione? Rivedere i sussidi. “Un triste primato: troppi disoccupati tra giovani e donne”, titola La Repubblica. I governi devono intervenire riformando, in senso restrittivo, il sistema dei sussidi di disoccupazione, che in alcuni casi svolgono il ruolo di disincentivo al lavoro”, dichiarava l’Ocse, aggiungendo che sarebbe stato necessario rivedere la “durata dei sussidi, l’importo e le condizioni che portano alla concessione dell’aiuto”. Anche in questo caso, numerose sono le analogie con la battaglia per l’abolizione del reddito di cittadinanza. Nel 2002 da Roma parte l’allarme dei ristoratori che non riescono più a trovare cuochi. Si legge su La Stampa: “Cuochi, meno male che ci sono gli immigrati” e proseguendo riporta le dichiarazioni di Giuseppe Sinigaglia, Direttore della scuola alberghiera Enalc e Presidente nazionale dell’Associazione maitre d’hotel di ristoranti e alberghi: “Roma non ha bisogno solo di colf e badanti extracomunitarie, ma anche di addetti alla ristorazione per mantenere viva la tradizione che. diversamente, rischia di morire. E’ ormai dagli anni Settanta che la gran parte degli allievi che hanno frequentato corsi di ristorazione non riesce a inserirsi nel mondo del lavoro per motivi diversi che riguardano sia il livello di scolarizzazione che le complessità insite nel mercato del lavoro. Così mancano cuochi e, paradosso, proprio in Italia patria della cucina, gli operatori sono costretti a ricorrere ai cuochi giovani facendoli venire dall’estero”.

“Non vogliono lasciare casa” – Sempre nel 2002, esce il ritratto dei giovani romani in età da lavoro: “Vuole un “posto fisso”, è attaccato alle proprie abitudini, alla famiglia e agli amici, ha oltre 26 anni e cerca un lavoro. E’ il profilo del giovane di Roma e provincia. Conosce il computer e l’inglese, ma non vuole lavorare all’estero”, sosteneva il rapporto elaborato da Euraction. Nel maggio 2002 esce un rapporto Censis che dipinge in maniera ben poco gradevole i giovani degli anni 2000, ovvero gli attuali 40enni e dintorni: “I giovani italiani hanno sempre meno voglia di lavorare. Non è un pregiudizio ma il risultato di un accurato studio del Censis. Il patologico immobilismo dei giovani nei confronti del lavoro si celano fenomeni diversi intrecciati fra loro. Ad esempio la paura per una condizione strutturale d’ incertezza. Ma anche l’adagiarsi sul salvagente famigliare. In ogni caso la disponibilità a lasciare la cuccia calda del proprio circondario è molta bassa”, si legge su Repubblica.

Infine, per terminare questo breve excursus storico, concludiamo con le lamentele del preside di un istituto salesiano, diffuse da Repubblica nel 2003: “Non è un problema solo di mercato, ma di mentalità dei giovani che, in molti casi, non sanno accontentarsi del primo impiego per poi guardarsi attorno”, dichiarava Paolo Zuccarato, preside dell’ Edoardo Agnelli, storico istituto torinese. “Chi non ha un diploma, ha poche possibilità. L’importante è però entrare, accettare anche se non corrisponde subito alle proprie aspirazioni, magari come orario o salario. Dopo si fa sempre in tempo a cambiare”, concludeva.

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