Uno dei motivi per cui il genere cinecomic è apparso stanco in tempi recenti sta nel fatto che, se i supereroi sono per loro natura abituati a trascendere i limiti, le loro trasposizioni live action devono invece superarne fin troppi: la tendenza degli studios a rischiare poco e a produrre troppo, le aspettative crescenti del pubblico, l’invecchiamento anagrafico degli attori nel corso di lunghi archi narrativi, i dazi ingenti che il criterio di verosimiglianza impone, a una materia che della verosimiglianza si fa beffe per diritto di nascita.

Anche per questo motivo, quando la Sony produsse Into the Spider-Verse riscuotendo un grande successo di pubblico e facendo incetta di premi (tra cui l’Oscar e il Golden Globe per la miglior pellicola d’animazione) fu una buona notizia per l’industria, oltre che per tutti gli appassionati. Dal seguito Across the Spider-Verse, diretto da Joaquim dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson, esce rafforzata la sensazione che siano proprio le trasposizioni animate a poter dare nuova linfa al genere, oltre che maggior respiro alle grandi produzioni in carne e ossa e, di conseguenza, maggiore varietà all’offerta in sala.

È possibile che esistano dei canoni fissi, dei destini oscuri a cui non si può scampare, anche quando si ha a che fare con un multiverso di possibilità?

È cercando di rispondere a questa domanda che prosegue il romanzo di formazione dei due giovani spider-protagonisti: Miles Morales di Terra-1610 e Gwen Stacy di Terra-65 (doppiati in originale da Shameik Moore e Hailee Steinfeld), alle prese con una nuova crisi che poggia le radici nelle loro avventure precedenti, in particolare con il caos che un nuovo avversario, bizzarro e potentissimo (la Macchia, doppiato da Jason Schwartzman), vuole scatenare nelle loro vite, mosso da un mal posto desiderio di vendetta.

A ricordare ai due adolescenti gli obblighi morali che le proprie decisioni comportano, un vero e proprio esercito di Spider-Men e Women provenienti da infinite terre parallele, capeggiato da Miguel O’Hara (voce di Oscar Isaac), il cupo Uomo Ragno del 2099, a cui fa da benevolo contraltare la vecchia conoscenza Peter B. Parker (voce di Jake Johnson).

Se dunque nel primo episodio il focus dell’azione era incentrato su cosa significasse essere Spider-Man, sull’assunto che il volto nascosto sotto alla maschera fosse di gran lunga meno importante delle azioni compiute con questa indosso, il cuore pulsante di questo sequel è invece il rapporto tra le scelte compiute dagli eroi e le responsabilità che ne conseguono, il difficile mantenimento dell’equilibrio tra interesse privato e interesse pubblico (universale, in questo caso) quando si ha un grande potere a disposizione e tutta la proverbiale “vita davanti”.

A livello formale c’è da stropicciarsi gli occhi per lo stato dell’arte: sembrano davvero infinite le possibilità immaginifiche, diegetiche e di puro intrattenimento a cui si è giunti dal punto di vista dell’animazione. Il film è un festival visionario di colori, una danza elettrica di stili animati in coabitazione armoniosa che non appesantiscono la narrazione ma la esaltano. Il merito è anche di una scrittura equilibrata, in grado di sfruttare sapientemente la libertà concessa dalle scelte visive. Spassosissimi, poi, i cameo e le citazioni dedicate a (quasi) tutte le incarnazioni precedenti dell’eroe, da quelle televisive animate a quelle cinematografiche, compresa quella in carne e ossa di un attore/sceneggiatore/musicista di grande talento, su cui non possiamo aggiungere altro per non rovinare la sorpresa a chi non l’ha ancora visto.

Innovativo, genuino e fosforico, il nuovo capitolo della saga animata dedicata all’Uomo Ragno riesce a non cadere nelle trappole di ripetitività a cui i sequel hanno abituato il grande pubblico, anzi rilancia sulla propria rumorosità, sospinto da un desiderio di escapismo sì caotico, ma mai confuso. Unico difetto, se proprio se ne vogliono trovare, il finale sospeso che prelude all’inevitabile sequel – annunciato per la primavera del 2024 – ‘eyond the Spider-Verse. Consuetudine ormai assodata nella serialità hollywoodiana, che ha un impatto senz’altro positivo sull’ingaggio del pubblico ma che interrompe il pathos del terzo atto invece di risolverlo, e di conseguenza rovina un po’ la festa a chi è abituato a tirare le somme di ciò che vede, quando lo vede. Si tratta comunque di una grande festa per gli occhi, quindi pazienza.

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