L’Esposizione Universale (Expo) è un evento internazionale che si propone di offrire una piattaforma di dialogo tra tutti i Paesi sui temi dello sviluppo e del progresso, ponendo al centro quelle innovazioni capaci di migliorare la qualità di vita delle persone, a partire dalle comunità più escluse, a livello economico, sociale e culturale.​ Dal 1851, data della prima Esposizione Internazionale, organizzata a Londra, se ne sono organizzate con cadenza periodica in giro per il mondo e la prossima, quella del 2025, verrà celebrata a Osaka, in Giappone, dietro al titolo “Delineare la società del futuro per le nostre vite”.

Per l’edizione del 2030 si sono candidate le città di Roma, Busan, Riad e Odessa e da mesi è in corso una dura lotta che si concluderà il prossimo 23 novembre, quando il Bureau International des Expositions (BIE) sarà chiamato a designare la città vincitrice. Una competizione per la quale i delegati del BIE potrebbero decidere di spostare l’ago della bilancia sul fronte del rispetto dei diritti, come già avvenuto per Riad la cui candidatura è a rischio dopo una di protesta fatta pervenire al BIE da dodici organizzazioni impegnate sui diritti umani.

Per quanto riguarda Roma, l’area designata per l’Expo 2030 avrà un’ampiezza di 210 ettari e si estenderà nel quartiere di Tor Vergata, in prossimità delle “Vele” di Calatrava. I lavori, supervisionati dall’architetto Carlo Ratti, prevederanno la realizzazione di un boulevard sul quale affacceranno tutti gli stand dei Paesi partecipanti e di un parco solare urbano più grande del mondo con centinaia di alberi energetici, con pannelli che si aprono e chiudono durante il giorno con il duplice scopo di raccogliere l’energia solare ma anche di fornire ombra ai visitatori.

«A Roma – si legge con enfasi sul sito che presenta la candidatura della città eterna – tutti i Paesi partecipanti potranno dare il proprio contributo per individuare il modello di convivenza urbana del futuro».

Ma di quale convivenza si parla? Dall’area di Tor Vergata sono sufficienti 10 minuti di macchina per precipitare in un “buco nero” che stride vergognosamente con gli obiettivi generali e i valori dell’Expo e con i proclami vuoti della giunta capitolina. Non si parla, come per il caso di Riad di “condannati a morte”, ma di persone “condannate a vivere” con lo stigma della diversità, il marchio rifiuto e dell’esclusione sociale. Si tratta di una baraccopoli creata nel 2006 dal Comune di Roma, dove 350 persone vivono dentro container e baracche, con servizi insufficienti, in condizione di profondo isolamento spaziale e relazionale. Il Comune di Roma la chiama beffardamente “villaggio attrezzato”. Per gli enti di ricerca è qualcosa di profondamente diverso: una “fabbrica di malessere”, una “istituzione totale”, un’area di “discriminazione istituzionale”; un luogo “dove il tempo è cristallizzato”.

Collocata lungo via di Salone, la baraccopoli è abitata da un’ottantina di famiglie e da quasi 140 minori. Bambini ai quali la speranza è stata rubata da una statistica impietosa che vieta loro di sognare un futuro diverso. Nascere oggi nella baraccopoli di Salone significa avere un’aspettativa di vita inferiore di 10 anni rispetto alla media nazionale, avere 60 possibilità in più rispetto a un coetaneo di finire in una casa famiglia o in adozione, non avere alcuna possibilità di raggiungere la laurea o almeno il diploma. Il tempo è bloccato e con esso l’ascensore sociale, sprofondato nel buio dal quale nessuno è sinora riuscito a risalire e sul quale neanche gli “alberi energetici” apri e chiudi della vicino Expo, riusciranno a generare anche un solo flebile riflesso.

Quando si entra nella baraccopoli, muovendosi tra cumuli di rifiuti, le frasi da ascoltare sono sempre le stesse: «La cosa peggiore sono i topi e la sporcizia. Aiutate a uscire da qui!»; «Qui è un loop continuo e finisci per morire dentro. Ogni giorno»; «Ma quand’è che buttano giù questo schifo? È uno schifo solo a guardarci, pensa a viverci!». Parole che dovrebbero risuonare dagli altoparlanti dei padiglioni della futura Expo, che non sembrano però minimamente preoccupare la Giunta Gualtieri che davanti a questa “cisti urbana”, a quasi due anni dal suo insediamento, ha preferito girarsi dall’altra parte in un “stiamo lavorando per superarla” al quale hanno perso la speranza pure gli abitanti.

Perché ripiombati, ancor di più con la candidatura all’Expo, in un cono d’ombra che la luce dell’evento non fa altro che amplificare, rendendo dannatamente reali e ipocritamente invisibili le vite dannate di quanti racchiusi al suo interno.

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