Oltre a Roma, Busan e Odessa, a ospitare Expo 2030 si è candidata anche Riad, capitale dell’Arabia Saudita. Teoricamente, dopo Dubai 2020 (poi svolto quest’anno a causa della pandemia) e Osaka 2025, tra otto anni l’Expo dovrebbe tornare in Europa.

Invece, la candidatura saudita, annunciata già un anno fa e formalizzata alla fine di settembre, pare molto forte. A volerla, nell’ennesimo esercizio di pubbliche relazioni, è l’uomo sempre più forte di Riad, il principe della Corona Mohamed bin Salman, che da poco si è anche aggiudicato i Giochi asiatici invernali (sì, avete letto bene: invernali) del 2029. I voti degli stati arabi sono ovviamente assicurati e la potenza economica saudita (sotto forma di aiuti allo sviluppo) potrebbe procurare voti anche in Africa e in Asia, nonostante la candidatura hi-tech della Corea del Sud.

Ricucito ogni strappo, nel rimescolamento delle relazioni internazionali conseguente alla guerra in Ucraina, anche gli Usa potrebbero sostenere la candidatura di Riad: alla faccia della giustizia per il brutale assassinio di Jamal Khashoggi, tra l’altro editorialista del quotidiano statunitense Washington Post, su cui è calata la consueta cappa d’impunità. C’è poi l’incognita della candidatura di Odessa, simbolicamente importante perché proveniente da uno Stato che ora è vittima dell’aggressione internazionale russa.

Per quanto riguarda Roma, il sostegno dell’Unione europea sarà compatto? Qualche dubbio viene, passando in rassegna l’ultimo anno di relazioni sempre più strette tra la Francia e l’Arabia Saudita, suggellate dalla visita di Macron a Riad a luglio. Il Comitato promotore di Roma 2030 parla di un’Expo basata su inclusività e diritti. Quelli che mancano del tutto in Arabia Saudita, dove non c’è più un difensore dei diritti umani a piede libero, vengono emesse condanne durissime solo per un tweet, le famiglie degli attivisti sono spezzate dai divieti di viaggio, ci sono oltre 100 impiccagioni all’anno e minorenni al momento del reato rischiano tuttora di essere messi a morte.

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