Come puoi dire tutto sull’orrore che ha patito il popolo ceceno? Come puoi farlo apparire senza raccontare nulla? Senza dire chi, come, dove, quando? Senza usare l’affabulazione verbale, la costruzione logica di una descrizione?

Julia Varley interpreta una profuga cecena, di lei sappiamo solo che viene da un paese in guerra da generazioni, sappiamo che molti suoi parenti e il suo amato sono stati uccisi. Ma Julia non spiega, non descrive, non fornisce particolari più o meno raccapriccianti. La televisione e le piattaforme di film hanno portato la lente della cinepresa dentro pance squartate volando sui corpi ustionati, hanno registrato tutte le urla degli straziati, hanno ripreso le lacrime, i lividi, i coltelli che tagliano, le asce che amputano, le teste aperte dalle mazze ferrate vichinghe…

Lo spettacolo realizzato con Eugenio Barba ci presenta un’immagine della violenza che ha bisogno di un lenzuolo, un albero/crocifisso e un pupazzo, bianchi e di poche pallide chiazze di colore rosso. Ed è con così poco che si porta che il livello di percezione emotiva a esplodere dentro il corpo degli spettatori.

È un fenomeno fisico. Uno sballo, una trance emotiva. Movimenti, gesti, parole smozzicate, vocalizzi, ritmi, scivolamenti di piede e di cuore. Ero rapito da questo alfabeto sensoriale sconosciuto, misterioso, indecifrabile dagli strumenti della logica e della razionalità. Mi sono trovato di fronte alla descrizione dell’orrore della guerra molto più potente delle inquadrature da vomito e sangue finto.

Ogni respiro della Varley è vero. È come entrare nel grande affresco di Guernica di Picasso. Non è richiesta nessuna interpretazione razionale. Anzi, qualunque tentativo di capire è controproducente perché ti trascina fuori dall’empatia emotiva. Quindi ti rende incapace di sentire il significato proprio perché lo vuoi capire. Cosa c’è da capire nel massacro del popolo ceceno? Qualunque tentativo di misurarlo e descriverlo razionalmente vuol dire sminuirlo dandogli una forma circoscritta. Questo è stato un olocausto che ha provocato un dolore incommensurabile, non misurabile, infinito.

L’antica tradizione dei comici ha spesso guardato con sospetto questo nuovo teatro, fatto di suoni e di gesti, più simile a un quadro astratto che alla geometria d’acciaio della struttura logica della commedia. Non c’è “macchina” narrativa. Ma è ora di accorgersi che questa distanza è solo apparente, comici razionali e performer emozionali affondano le loro radici nei millenni.

Alle origini del teatro, nella grotta paleolitica, il teatro rispondeva al bisogno di raccontare agli altri il dolore subito: la condivisione della sofferenza, dell’umiliazione è la struttura archetipica del dramma. Il gruppo che è sopravvissuto all’attacco della tigre deve poter raccontare la paura e il dolore delle ferite. Ma qualche tempo dopo la catarsi del dolore, spunta il bisogno di disinnescare la memoria, esorcizzare le paure con la risata. Ed ecco che qualcuno racconta un particolare comico: quando quello che fuggiva dalla tigre è inciampato e caduto, proprio mentre la tigre gli balzava addosso, e la tigre perse così il bersaglio contro il quale voleva schiantarsi e si è trovata in un salto inarrestabile ed è caduta in un crepaccio. E così l’uomo si è salvato grazie ad una caduta… E tutti giù a ridere.

Scrivendo queste parole mi viene in mente Kataria, l’inventore dello yoga della risata, che fa sganasciare dal ridere migliaia di persone radunate in piazza, senza raccontare niente di comico ma semplicemente giocando con il suono della sua risata. Che invidia! Io mi sfianco di discorsi per far ridere e a lui basta iniziare a farlo! Anche lui pratica l’empatia diretta, galvanizza i neuroni a specchio, utilizza misteriose alchimie acustiche… Porta in scena un quadro astratto, usa lo sghignazzo al posto dei colori.

Credo che dalla comprensione della storia del teatro come un unico fenomeno con diverse sfumature possa nascere una nuova, più profonda collaborazione tra le diverse scuole. È il momento di unirsi. Quando i duri non hanno più speranze, i morbidi cominciano a giocare.

Scritto dopo una Lezione Magistrale e una performance strepitose, alla Libera Università di Alcatraz, in occasione del convegno su mia madre organizzato dalla Fondazione Barba Varley; da Mattea Fo e Stefano Bertea per la Fondazione Fo Rame.

Messaggio per i teatranti: noi abbiamo iniziato a realizzare azioni comuni. E tu?

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