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La maglietta col logo ‘Auschwitzland’ non incita alla discriminazione: ecco perché il tribunale di Forlì ha assolto Selene Ticchi

La maglietta col logo ‘Auschwitzland’ non incita alla discriminazione: ecco perché il tribunale di Forlì ha assolto Selene Ticchi
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Indossare una maglietta col logo ‘Auschwitzland’ e il disegno della porta d’ingresso del famoso campo di concentramento nazista non è una prova sufficiente a stabilire l’appartenenza a un’organizzazione che incita alla discriminazione. Così il giudice Marco de Leva del tribunale di Forlì ha giustificato l’assoluzione decisa nel gennaio scorso in Appello per Selene Ticchi, l’ex esponente di Forza Nuova poi sospesa e ora appartenente al Movimento nazionale rete dei patrioti che il 28 ottobre 2018, in occasione dell’anniversario della Marcia su Roma, a Predappio indossò la t-shirt col logo che, utilizzando il font della Walt Disney, rimandava ai lager. Ticchi è stata assolta dall’accusa di aver violato la legge Mancino, ma la Procura ha comunque annunciato il ricorso in Cassazione, sostenendo che invece quello sulla t-shirt è simbolo usuale di gruppi fondati sull’apologia della Shoah.

Secondo le motivazioni della sentenza, che ha ribaltato la condanna in primo grado, il quadro istruttorio nei confronti della donna è gravemente lacunoso: nulla è stato riferito dai testimoni, neppure da quelli di polizia giudiziaria, “in ordine alla portata distintiva del segno grafico esibito da Ticchi, alla genesi del logo Auschwitzland, per come ostentato sulla maglietta (rimanendo invece irrilevante la genesi storica della mera espressione lessicale), all’uso che ne viene fatto e al suo grado di diffusione“. E “non può ritenersi abbia rilievo penale un qualsivoglia segno grafico”, ma solo quelli forniti di una certa capacità rappresentativa. Come per esempio, ricorda il giudice, il tricolore con, nella parte bianca, l’emblema del fascio littorio “collegato da tutti i consociati al regime fascista che è stato l’ultimo utilizzatore del simbolo”.

Nel caso che riguarda Ticchi, ha poi aggiunto il giudice de Leva, è anche assente la prova che il disegno sulla maglietta possa essere ricollegato “a una qualche organizzazione attualmente esistente che propugni ideologie fondate sull’odio razziale”. Di conseguenza, la conclusione della corte è che il fatto non sussiste.

Ben più dura la richiesta di condanna avanzata dalla pm Laura Brunelli: nove mesi di carcere. La Procura sostiene infatti che non si possa dire che l’immagine dell’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz non sia un segno grafico dotato di portata distintiva, ovvero che non sia nota la sua portata simbolica. “La rappresentazione di esso, ancorché in offensiva ‘forma grafica giocosa’, rimanda sempre, pesantemente, al genocidio degli ebrei la cui denigrazione, mediante raffigurazione con stampa Disney, assume maggior efficacia di apologia della Shoah”. Inoltre, aggiunge il magistrato, bisogna tenere conto del contesto e della valenza simbolica della ricorrenza della Marcia su Roma a Predappio “che consente, con maggior vigore, di attribuire a quel simbolo la forza di ‘simbolo usuale’ di gruppi nazifascisti fondati sull’odio razziale e sull’apologia della Shoah”.

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