Non sembra arrestarsi la dinamica “multidirezionale” di riavvicinamenti tra Paesi del Medio Oriente: è delle ultime 48 ore sia la notizia della storica visita del ministro degli Esteri siriano a Riyad, dopo più di 12 anni, che quella della ripresa delle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Egitto. Non sarà una “stagione dell’amore” quella in corso da qualche mese nell’area, ma appare perlomeno come la stagione delle normalizzazioni: emerse sui media regionali in modo repentino, quasi sorprendente, covavano in modalità diverse da qualche mese, in certi casi da qualche anno. La ripresa delle relazioni diplomatiche tra i due “giganti” regionali, Arabia Saudita e Iran aveva “fermentato” in due anni di colloqui più o meno riservati, mediati da Iraq e Oman e culminati con l’iniziativa diplomatica cinese.
A precederla c’era stato il riallacciamento nell’agosto del 2022 dei rapporti tra Teheran e due monarchie legate a Riyad, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait, a sua volta connesso a quello delle relazioni – sempre con la mediazione di Pechino – tra il Qatar e gli UAE che nel 2017, insieme ad Arabia Saudita, Egitto e Bahrein, avevano tagliato i ponti con Doha anche per via dei suoi rapporti con la Repubblica Islamica. Dei giorni scorsi è anche l’annuncio della riapertura delle ambasciate tra Doha e Manama, mentre risale a gennaio 2021 il delicato – per via dello storico posizionamento di Doha rispetto alla Fratellanza musulmana, mal visto da Il Cairoreapproachment tra Qatar ed Egitto che si è poi evoluto poi con la firma nel settembre 2022 di un Memorandum d’intesa che ha coinvolto anche i rispettivi fondi sovrani e, lo scorso marzo, con i primi accordi di cooperazione militare.
La normalizzazione tra Teheran e i Paesi del Golfo ha costituito forse lo zenit di questo ampio processo, reso possibile dalla fertilizzazione del terreno diplomatico nel corso degli ultimi due anni, in grado poi di stimolare ulteriori ricomposizioni: in primis il rinnovo del dialogo tra Riyad e i ribelli Houthi in Yemen, che nell’ultima settimana sembra essere entrato nelle sue fasi più calde, con una proposta di cessate il fuoco da parte dei sauditi – con mediazione dell’Oman – e l’annuncio dello scambio di quasi un migliaio di prigionieri di guerra. In secondo luogo, la storica visita – dopo oltre dodici anni – a Jeddah del ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad, per dare seguito, assieme al suo omologo ed omonimo, il principe Faisal bin Farhan, alla ricomposizione dei rapporti dopo la rottura durante le prime fasi del conflitto in Siria, nel quale Riyad si era fermamente schierata con le opposizioni finanziando alcuni gruppi ribelli.
A margine dei movimenti dialogici portati alla luce o influenzati dal riavvicinamento tra Riyad e Teheran, c’è poi quello tra Egitto e Turchia. “Abbiamo trovato un accordo per un percorso che ci porti a ripristinare livelli più consistenti di rappresentanze diplomatiche, del quale daremo annuncio al momento opportuno, nell’ambito dei lavori preparatori a un più ampio summit tra i due Paesi“, ha dichiarato al Cairo lo scorso giovedì Sameh Shoukri, ministro degli Esteri egiziano, durante una conferenza stampa congiunta con il suo omologo turco, Mevlut Cavusoglu. Il primo incontro ufficiale tra i due Paesi dopo dieci anni, preceduto da un meeting informale tra al-Sisi ed Erdogan durante i Mondiali in Qatar, e che verosimilmente sarà seguito nelle prossime settimane da un ulteriore incontro tra i due presidenti in carica, anche se il mese prossimo quello turco dovrà fare i conti con le elezioni.
Propiziato – come nel caso di Riyad e Damasco – dal devastante terremoto in Turchia e Siria dello scorso 6 febbraio e dai conseguenti aiuti umanitari convogliati verso i due Paesi da diversi Stati del Medio Oriente (tra cui l’Egitto), il processo di ricomposizione delle tensioni tra due dei tre Paesi più popolosi del quadrante regionale sembra essere incerta e delicata, forse anche proprio per via della sua lateralità rispetto alla storica faglia tra Iran e Arabia Saudita (è più che altro il riavvicinamento tra Qatar e l’asse saudita ad aver spinto Ankara al dialogo, ndr). Le sue conseguenze, tuttavia, promettono di essere rilevanti, in misura proporzionale a quanto inverosimile veniva considerato questo reapproachment fino a pochi mesi fa.
Ankara ed Il Cairo avevano rotto nel 2013, all’indomani del colpo di Stato guidato da Abdel Fattah Al Sisi ai danni di Mohammad Morsi, primo presidente eletto nella storia del Paese, a capo di un partito espressione della Fratellanza musulmana, dalla quale è vagamente emanato anche l’Akp del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Da quel momento Il Cairo, che considera la Fratellanza una organizzazione terroristica, aveva iniziato ad accusare Ankara – dove erano stati accolti alcuni esponenti in esilio, oltre che una serie di esponenti del movimento armato Hasm, di cui Il Cairo chiede tuttora l’estradizione – di “sostegno al terrorismo”.
Non si è trattato del punto più basso: le tensioni tra i due Paesi sono proseguite nel corso degli anni, dapprima rispetto alla postura turca nel conflitto in Siria e poi, nel 2020, col serio rischio di una escalation militare dopo che la Turchia era intervenuta in Libia a sostegno del governo tripolino – sostenuto dall’Onu – di Fayez al-Serraj: di fatto impedendone il collasso, frenando l’assedio ai suoi danni e l’ascesa del generale Khalifa Haftar, delfino di al-Sisi, sostenuto anche da Russia ed Emirati Arabi Uniti. In quei giorni, il presidente egiziano aveva pubblicamente definito l’intervento turco in Libia come una “minaccia alla sicurezza nazionale dell’Egitto”, fino a intimare nel giugno 2022 alle truppe egiziane di “tenersi pronti a missioni al di là del confine”.
Il dossier libico rimane il più delicato ma non privo di sbocchi: Il Cairo chiede ancora il ritiro di tutte le milizie sostenute da Ankara, il quale rimane improbabile ma che potrebbe gradualmente implicare una riduzione dell’impegno, magari attraverso la permanenza di consiglieri militari turchi ma non dei militanti provenienti dalla Siria, contestuale all’apertura egiziana verso il governo tripolino. Ciò potrebbe anche collegarsi a una soluzione della disputa legata all’accordo che Ankara ha trovato con Tripoli per l’esplorazione di giacimenti offshore nella sua zona economica esclusiva, mal digerito sia dall’Egitto che dalla Grecia.
Con queste premesse, in un certo senso ancora “fresche”, appare comprensibile come questo versante di normalizzazione regionale venga guardato con maggiore apprensione, soprattutto dal lato egiziano, con il ministro degli Esteri che ha invocato da parte di Ankara “azioni concrete che dimostrino un allineamento ai principi e agli obiettivi egiziani”, ed i cui media tendono a caldeggiare l’attesa del voto turco per capire come procedere oltre.
L’aspetto paradossale, in un rapporto che anche durante l’incontro tra i due ministri degli Esteri non ha mancato di portare all’attenzione delle consistenti divergenze – con la richiesta da parte di Shoukri di (un improbabile, ndr) “ritiro delle truppe turche dalla Siria” – è legato a un certo grado di impermeabilità alla tensione geopolitica dei rapporti commerciali, in misura e modalità simili a quanto accade tra la stessa Ankara e Teheran, solidi partner commerciali anche durante le fasi più aspre del conflitto in Siria che le vedeva su opposti fronti. Gli investimenti turchi in Egitto ammontavano a 2,5 miliardi di dollari nel 2021, con l’interscambio tra i due Paesi che è quasi triplicato tra il 2007 e il 2020, arrivando a circa 11,5 miliardi. Le compagnie turche attive in Egitto hanno sempre continuato a operare, sia durante il colpo di Stato ai danni di Morsi che negli anni seguenti, nei quali da Istanbul e Ankara trasmettevano emittenti gestite da esiliati egiziani, fortemente critiche del presidente egiziano e delle quali Il Cairo continua a chiedere la chiusura.
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