Tobias rise del pagliaccio dei Verdi che veniva intervistato in qualche stanza. Uno sbruffone con la laurea. La parete tappezzata di libri. La vita umana di qua e salvare gente di là. Fanculo, voleva urlargli. La piazza del mercato era piena. Anche a Neschwitz si sarebbe dovuti radunare così tanti cittadini, quando fosse arrivato il loro turno. Nemmeno un politico nel raggio di chilometri che affrontasse le masse. Se ne stavano rintanati in casa, comodi e al calduccio. Mercedes come auto di servizio. In tutta la vita non avevano mai lavorato con le mani. Tobias sogghignò quando le campane della chiesa rintoccarono. Il pastore si schierò contro i manifestanti. Come se dipendesse dagli scopatori di bambini. Come se gliene fregasse a qualcuno che il cazzo di campanile non era illuminato.

Battere i pugni sul mondo, di Lukas Rietzschel (traduzione di Scilla Forti; Keller Editore). Straordinario, veritiero e ruvido romanzo che narra delle macerie dell’ex Ddr ricorda, per certi versi, la grande prosa di Christoph Hein in libri come Terra di conquista e Willenbrock, oltre che la psicologia del caos dei protagonisti de Criacuervo, di Orlando Echeverri Benedetti e i giovani senza prospettive di Teriaca, di Andrea Zoccolan. È la storia di due fratelli, Philipp e Tobi, cresciuti all’alba del terzo millennio in una zona periferica dell’ex Repubblica democratica tedesca. In un micromondo dove le illusioni e le speranze di una vita migliore arrugginiscono insieme ai ruderi industriali, i due cercano una propria strada.

Da una parte l’interiorizzazione e la chiusura alla vita sociale, dall’altra l’avvicinamento ai gruppi radicali della destra fino alla completa adesione alla missione di cacciare via dei rifugiati dalla città di provincia che fa da sfondo alle vicende narrate. Lukas Rietzschel considerato uno dei più importanti scrittori tedeschi dell’est della nuova generazione. Scrive una storia potente, poetica, carica di simboli e che fa immergere il lettore negli strascichi della storia, gli sbatte in faccia il fallimento europeo di unità e aggregazione. Un romanzo originale, intimo e commovente.

Quando era solo, o almeno non sospettava di essere osservato, mio padre era solito tenere lunghi soliloqui in una lingua misteriosa di cui non comprendevo neppure una parola. Nascosto in un angolino che non venne mai scoperto cominciai ad ascoltare quei monologhi uno o due anni prima di imparare a leggere e scrivere. E soltanto molto dopo, con le elementari già alle spalle, compresi a poco a poco come la cantilena gutturale di quei discorsi che suonava così diversa dal dialetto dell’Alta Austria in cui venivo elogiato, consolato o sgridato fosse il suono della lingua russa. Quando era solo con se stesso, mio padre parlava russo: forse a causa dell’interrotto amore per una terra e la sua letteratura che un professore di liceo gli aveva instillato molto presto e in controtendenza con il clima che infuriava al tempo.

L’inchino del gigante, di Christoph Ransmayr (traduzione di Marco Federici Solari; L’Orma Editore) racchiude in un unico volume cinque brevi libri accomunati dal tema del viaggio e della metamorfosi. Storie viandanti di uno dei più grandi autori austriaci contemporanei. Dalle scogliere irlandesi ai grattacieli di Hong Kong, su una nave rompighiaccio nell’Artico, tra i reflussi dei ricordi dell’infanzia, gorilla mentori, creature aliene, maiali nuotatori, Christoph Ransmayr ammalia il lettore grazie alla straordinaria capacità di collegare dettagli apparentemente insignificanti con i massimi sistemi dell’esistenza. L’estremizzazione del viaggio vista come necessaria metamorfosi per passare nel cerchio più grande della conoscenza, per comprendere noi stessi e il mondo che muta o che rimane immobile. A seconda dei punti di vista.

La pioggia si riversa con violenza sulla notte. La pioggia sminuzza le foglie degli alberi. La pioggia fa salire fin sui tetti l’odore di marcio di rue Tolgosane. La pioggia diminuisce d’intensità. Si sentono altri rumori. Il pipistrello impermeabile gocciola sulle piastrelle del vano doccia. Forse dovrei rimettermi con Dama Patmos, pensa Keytel. Farla venire in rue Tolgosane e sparire con lei nel settore Baltimore. Magari anche a lei piacerebbe cambiare vita. Magari anche lei è depressa come me, ma lo nasconde. Come me.

Le ragazze Monroe, di Antoine Volodine (traduzione di Anna D’Elia; 66thand2nd) è un testo distopico, surrealista, folle e terribilmente profetico. Il mondo, dilaniato dal caos politico e militare, è diventato un gigantesco ospedale psichiatrico. Monroe, ex membro del Partito eliminato anni addietro in seguito a delle lotte interne, organizza dall’aldilà un commando di terroriste per sovvertire l’ordine costituito e scatenare la rivolta. Inizia così una caccia ai ribelli, caccia che vede la polizia e i servizi segreti utilizzare tecniche sciamaniche e paranormali. Con uno stile che a tratti richiama a Le volpi pallide, di Haenel Yannick. Le ragazze Monroe è, a mio avviso, una delle opere migliori di Volodine, dove le atmosfere alla Blade Runner si fondono con echi metafisici, accenni grotteschi e sequenze da noir psicologico.

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