“Pro o contro gli scooter self-service?”. Il quesito della consultazione pubblica era chiaro. E i cittadini di Parigi hanno chiaramente votato a stragrande maggioranza il bando di monopattini e scooter elettrici a noleggio. Nove parigini su dieci li hanno cancellati dal paesaggio cittadino. Anche se la partecipazione è stata modesta —meno di uno su dieci ha partecipato al referendum — l’esito era prevedibile. Questi veicoli non-veicoli sono pericolosi e, nello stesso tempo, resi fastidiosi dall’abuso degli spazi pubblici da parte degli utenti. La maleducazione stradale, per cui l’Italia vanta numerosi primati europei, ha valicato le Alpi in monopattino.

Tra le grandi città europee, Parigi era stata l’antesignana nell’introdurre e-scooter e monopattini elettrici, affettuosamente battezzati trottinettes, nel 2018. Le autorità cittadine cercavano di promuovere forme di trasporto urbano non inquinanti e la soluzione sembrava brillante. Mentre la popolarità di questi veicoli cresceva, soprattutto tra i giovani, aumentavano vertiginosamente gli incidenti: nel 2022 sono morte tre persone e altre 459 sono rimaste ferite. Ora basta. Parigi inverte la rotta, diventerà la prima città europea a vietare monopattini e scooter a noleggio, mentre quelli privati continueranno a girare. E lo fa controvento, poiché le multinazionali del settore stanno estendendo le proprie reti a Washington, Madrid e Londra.

Un milanese non si meraviglia per l’esito, poiché condivide da tempo gli stessi fastidiosi problemi dei parigini. Ma si sorprende per la decisione del sindaco di Parigi che, all’indomani del referendum, ha dichiarato che “i parigini si sono espressi a stragrande maggioranza contro gli e-scooter: saranno aboliti entro il primo settembre”. E si tratta del primo settembre prossimo venturo, anno 2023, non il 2123. Quando mai un esito referendario è stato recepito e prontamente attuato da chi governa le città italiane? A Milano, nel 2011 si tennero ben cinque referendum, contestuali alle elezioni comunali. Furono tutti approvati a stragrande maggioranza, in piena sintonia con chi vinse quelle elezioni. Sono rimasti in grandissima parte lettera morta. E, talvolta, sepolta dalle decisioni e dai fatti successivi.

Dopo 12 anni, a che punto è l’attuazione del quinto referendum, la scheda rosa sulla riapertura dei Navigli milanesi? Sarebbe stata una delle opere più empatiche e, nello stesso tempo, fattibili nello spirito del Pnrr, sia per costi sia per tempi di realizzazione. L’opera è stata affatto ignorata dalla lista della spesa proposta a Bruxelles, nonostante un folto gruppo di accademici avesse donato da tempo lo studio di fattibilità e Metropolitana Milanese avesse già lavorato a al progetto definitivo. Che dire del quarto referendum, in tema di risparmio energetico e riduzione delle emissioni di gas serra, il cui orizzonte è stato oscurato dalla enorme colato di ferro e cemento degli ultimi dieci anni?

Il terzo referendum, proposto da una scheda viola che già odorava di Quaresima, era chiarissimo. Il Comune doveva impegnarsi a conservare integralmente il parco agroalimentare da realizzare in occasione di Expo 2015, anche dopo la fine dell’evento. Il quesito servì ad ammansire i critici del trasloco del progetto originario da est a ovest. Oggi, i milanesi possono ammirare il seducente fervore edilizio che permea l’area ex-espositiva.

Il secondo referendum impegnava il Comune di Milano ad adottare tutti gli atti ed effettuare tutte le azioni necessarie a ridurre il consumo di suolo, preservare gli alberi e le aree verdi esistenti, garantire il raddoppio del numero di alberi e dell’estensione e delle aree verdi e la loro interconnessione entro il 2015, assicurando a ogni residente un giardino pubblico con aree attrezzate per i bambini a una distanza non superiore a 500 metri da casa. Dieci anni dopo Milano si piazzava al 30esimo posto, su 105 capoluoghi, nel 28esimo rapporto “Ecosistema urbano” di Legambiente e Ambiente Italia, pubblicato da Il Sole 24 ore nel 2021. E sul consumo di suolo consiglio la lettura del Rapporto Ispra del 2021.

La riduzione del traffico e dello smog, il potenziamento dei mezzi pubblici, la estensione di Ecopass, la pedonalizzazione del centro erano l’obiettivo del primo referendum. A dieci anni dal referendum, Milano era tra le città con la qualità dell’aria più scarsa in Europa secondo la classifica pubblicata dall’Agenzia Europea per l’Ambiente. Per la precisione, 303esima su 322, in base ai rilevamenti di PM2,5. E, secondo quanto pubblicato da IQair nel marzo di quest’anno, il capoluogo lombardo occupa il quinto posto della Top 10 delle 90 città più inquinate nel mondo, dopo a Pechino, Dhaka, Hanoi e Mumbai.

“Se Parigi avesse il mare, sarebbe una piccola Bari” recita un popolare detto pugliese. Neppure a Milano c’è il mare, nonostante alcuni penosi surrogati. Ciò nonostante, Milano si è ispirata negli ultimi quindici anni al modello urbano e sociale di metropoli sul mare come Dubai e Singapore, il modello evocato la scorsa settimana su questo blog. Peccato che a Dubai si respiri discretamente mentre Singapore l’inquinamento dell’aria addirittura lo esporti, cercando di consumarlo in loco il meno possibile. A Parigi, invece, è la voce dei cittadini a contare ancora qualcosa, a differenza di Milano, la cui voce popolare viene evocata solo per fare un po’ di ammuina, come si dice a Napoli, dove il mare c’è e si vede.

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