“Quando c’è un’amministrazione che fornisce i sussidi ai disoccupati, nasce la tentazione di disoccuparsi e di prendere il sussidio, e di lavorare meno, e di produrre meno”. Non è un esponente di maggioranza che contesta il reddito di cittadinanza, né un ristoratore che lamenta di “non trovare lavoratori”. Sono parole dell’economista liberale Umberto Ricci, dal 1923 al 1925 consulente del ministero delle Finanze del governo Mussolini guidato da Alberto de’ Stefani. L’idea di fondo è la stessa che un secolo dopo echeggia nelle frasi sul metadone di Stato” e la necessità di “soffrire e rischiare”: le politiche sociali danneggiano le dinamiche di mercato e invogliano ad accomodarsi sul divano, a scapito delle imprese. Ma le similitudini con i giorni nostri non finiscono qui. In quegli anni il regime avrebbe tradotto in pratica i dettami della nascente “teoria economica pura” abbracciata da Maffeo Pantaleoni, mentore di de’ Stefani. Varando un pacchetto di misure che a un cittadino europeo contemporaneo suonano altrettanto familiari: tagli alla spesa pubblica in nome del pareggio di bilancio, privatizzazioni e liberalizzazioni, compressione dei salari, tassazione regressiva, aumento dei tassi di interesse. Insomma: austerità su tutti i fronti.

Politiche, sostiene l’economista Clara E. Mattei in Operazione austerità – Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo (Einaudi), tutt’altro che neutrali come vengono presentate dai “tecnici“: sono uno strumento, è la tesi del libro che rilegge la storia dell’Italia e della Gran Bretagna degli anni Venti, funzionale a difendere il sistema capitalistico nei suoi momenti di grave crisi come quello attraversato durante e dopo la prima Guerra mondiale e “garantire condizioni di profitto stabili”. Il collegamento con il fascismo? “Per avere successo, l’austerità ebbe bisogno del fascismo: un governo autoritario che, con la forza e l’impunità politica, riuscì a imporre la propria volontà nazionalistica. Il fascismo, a sua volta, ebbe bisogno dell’austerità per rafforzarsi”, scrive Mattei, che insegna Economia alla New School for social research di New York. “Fu il disegno dell’austerità che condusse il mondo politico internazionale e nazionale a sostenere il regime, anche dopo le leggi fascistissime”.

Nel primo discorso al Parlamento, in effetti, Benito Mussolini aveva riassunto le direttive per la politica interna in “economie, lavoro, disciplina“, oltre a promettere di porre fine a tutte le “interferenze dello Stato”. “Le promesse furono mantenute”, ricostruisce Mattei, che nell’individuare i “facilitatori dell’austerità in Italia” chiama in causa non solo de’ Stefani e Pantaleoni, fascisti dichiarati, ma anche i liberali Ricci, appunto, e Luigi Einaudi, che del fascismo fu oppositore ma nei primi anni Venti, nei suoi interventi su Corriere ed Economist, espresse pieno sostegno alle politiche economiche del regime a partire dalla volontà di “porre fine all’aumento della spesa pubblica” e contenere gli aumenti salariali ottenuti grazie ai massicci scioperi del 1919 e 1920. Al netto delle divergenze ideologiche, le loro prese di posizione a favore del capitale e contro l'”immeritato” miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici, descritte come inguaribili spendaccione e parassitarie, sono in effetti sovrapponibili. Se Pantaleoni deprecava che le “classi operaie” – evidentemente “deficienti per qualità in confronto delle altre” – avessero “tutto speso in godimenti con la conseguenza di un notevole deterioramento delle loro qualità morali”, Einaudi predicava il “dovere di risparmiare” ignorato dagli operai come provavano “gli aumenti cospicui nei consumi non necessari di bevande alcoliche, dolci, cioccolata, biscotti”. Ricci aggiungeva che i dipendenti pubblici, senza gli incentivi del mercato, avevano la tendenza a diventare “fannulloni”.

Di lì la necessità di un governo forte e tecnocratico che invertisse la rotta rispetto alla “ingerenza” dello Stato in economia che aveva preso sempre più piede durante e dopo la prima Guerra mondiale, affiancata da un forte aumento delle spese per il welfare e dal fiorire di imprese cooperative con il sostegno pubblico. Evoluzioni nel senso di una “tirannia bolscevica“, nelle parole di Einaudi, che andavano contrastate ristabilendo i principi dell’economia pura e consentendo la “ripresa dell’accumulazione capitalistica”, riassume Mattei. Il fascismo appariva adatto allo scopo di imporre la limitazione dei consumi in favore del risparmio e dell’investimento. E infatti, seguendo le ricette di de’ Stefani e Pantaleoni, il regime impresse innanzitutto una svolta in campo fiscale: basta con la “persecuzione del capitale” e la “progressività confiscatoria” del dopoguerra, avanti con una nuova imposta sul reddito che colpiva i salariati, continui aumenti delle tasse sui consumi (+5% all’anno tra 1922 e 1925), abolizione di quella sul lusso e sulla ricchezza ereditata. Oltre a diverse “facilitazioni strutturali all’evasione fiscale delle fasce più alte”: quasi metà dell’evasione totale stimata (18 miliardi di lire nel 1934) riguardava “dividendi e interessi sulle obbligazioni pubbliche, due canali aperti quasi esclusivamente ai ricchi della nazione”.

A stretto giro arrivarono poi la riduzione della copertura dell’assicurazione obbligatoria contro invalidità e vecchiaia, la sospensione del contributo statale a quella contro la disoccupazione, il taglio di sussidi e pensioni per i veterani, i licenziamenti di decine di migliaia di lavoratori di poste e ferrovie, la privatizzazione dei servizi telefonici, la liberalizzazione del settore delle assicurazioni, l’abolizione delle commissioni di fabbrica (e poco dopo del diritto di sciopero), l’adozione della Carta del lavoro che mise fine al “pernicioso dualismo delle forze del capitale e del lavoro” imponendo che collaborassero “a uno scopo comune, l’interesse più alto della produzione”. Infine, l’austerità monetaria: per far fronte all’aumento dell’inflazione e agganciare la “quota 90” nel cambio tra lira e sterlina annunciata da Mussolini il tasso di interesse fu alzato dal 3 al 7%, ultimo atto di de’ Stefani poi sostituito da Giuseppe Volpi. Ma a quel punto occorreva ristabilire la competitività internazionale del Paese, e lo scopo fu raggiunto con le maniere forti: un drastico taglio dei salari nell’industria e nell’agricoltura e delle indennità per i dipendenti pubblici e economie draconiane nei consumi interni. Risultato: tra 1927 e 1930 “il saggio di profitto totale balzò dall’8,68 al 16,6%”, complice la disoccupazione elevata e il ritorno alla giornata lavorativa di 9 ore che archiviava la storica conquista delle otto ore datata 1919.

Riassumendo, il mix di austerità fiscale, monetaria e industriale consigliato dalla “tecnocrazia” e implementato con facilità grazie ai pieni poteri della dittatura consentì di tornare a soggiogare i lavoratori, a cui furono imposti sacrifici per trasferire risorse dalla maggioranza alla minoranza dei risparmiatori-investitori in vista della salvaguardia del sistema capitalistico. Meccanismi che funzionano ancora oggi, secondo Mattei. L’analisi di dettaglio si ferma agli anni Venti, ma l’autrice contesta la tradizionale distinzione fatta dalla storiografia tradizionale tra un primo periodo liberista e una seconda fase corporativista “considerata autentica espressione del fascismo”. Prendendo l’austerità come fil rouge, argomenta, “è possibile invece rintracciare una continuità tra i due momenti. Essa fu molto più di un semplice laissez-faire, poiché comportò un intervento attivo dello Stato nel contrastare la crisi del capitalismo”.

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