Cultura

“La terra dei figli”, il nuovo libro di Zecchi per un’ideologia della nuova destra italiana (che fa a fette la fede nella scienza)

Il filosofo torna in libreria con un volume che prova ad essere un "nuovo sillabario per la rinascita culturale", come recita il sottotitolo. Per l'autore “si è dileguata la fede in quell’energia creativa che aveva affidato alle grandi opere dell’arte il compito di rappresentare mondi possibili, si è inaridita la volontà della scienza di cercare nuove cosmogonie per stringere un patto con l’infinito e con l’eterno”

di Davide Turrini

È un libro di antinomie La Terra dei figli (sottotitolo: Nuovo sillabario per la rinascita culturale di Stefano Zecchi, edizioni Signs Publishing). Di antinomie e di contrasti, di distanze e di illuminazioni. Di uno iato filosofico profondo che si riverbera su più piani del pensiero e che vive nell’exemplum, e dell’exemplum respira (ancora) per contrasto. Un saggio estetico politico che diventa, oltretutto, manifesto e sudario di un’ideologia della nuova destra italiana che trova un’antica e lontana continuità ben più con un Novalis che con il solito santino evoliano. Intanto è proprio nel più pregnante sottotitolo che il saggio si rifà ad una futura “rinascita culturale” (richiamo quantomeno diretto al gruppo ancora virtuale fondato da Sgarbi e Morgan) fondata su quella che Zecchi definisce una “nuova educazione estetica”. Percorso cognitivo, sapienziale, quasi laicamente mistico, in cui deflagrano echi poetici da romanticismo d’inizio Ottocento (“poeticamente abita l’uomo su questa terra”), di un corposo antinichilismo nicciano, come di un accurato depotenziamento dell’alleanza novecentesca positivismo più socialismo. È questa ricerca “del fare bellezza” che trascina la riflessione di Zecchi fin dalle prime pagine. In questo secolo, spiega il docente di estetica, “abbiamo visto tramontare la speranza di fare della terra una casa per l’uomo, lentamente si è dileguata la fede in quell’energia creativa che aveva affidato alle grandi opere dell’arte il compito di rappresentare mondi possibili, si è inaridita la volontà della scienza di cercare nuove cosmogonie per stringere un patto con l’infinito e con l’eterno”.

Colpevoli non sono altro che l’illuminismo e l’idealismo. Aneliti di rivoluzione (termine nostro che mai nel libro appare, nemmeno in maniera descrittiva d’altrui concetti) che implicando “una fede profonda nella razionalità della Storia e nell’infallibilità del progresso scientifico” hanno come accantonato le “domande fondamentali, metafisiche, sul significato della vita, sul senso della verità, sul destino dell’uomo”. “Se un tempo era saggio chi sapeva cogliere la verità nella molteplicità dei fenomeni che accadevano sotto il suo sguardo – spiega Zecchi – l’uomo di scienza della modernità, al contrario, ha predisposto un metodo di analisi che frantuma la realtà in mille e mille parti (…) Per questo “le scienze della modernità ci dicono ciò che è valido, ma non più ciò che è vero”.

L’intemerata prosegue, dopo verità/validità, con il concetto di progresso che supera quello di perfezione, fino a quello di modernità (e postmodernità) che mettono da parte quello di classicità. Qui è naturale lasciare la parola a Zecchi: “Questa è l’essenza del classico: la fedeltà ad un equilibrio assoluto; non è possibile alcuna transitività, alcuna infrazione del sistema. Si pensi al modo in cui le parti di una scultura classica sembrano convergere tutte in un punto interiore che dà compattezza visiva all’insieme: da questo ideale e misterioso centro irrompe verso l’esterno l’espressione, insostituibile e inattaccabile dal trascorrere del tempo e della Storia”. Ma appunto il contrasto si ripete in chiave originale e provocatoria, per sistemare il social-comunismo del “dover essere”, della “prescrizione del comportamento”, nientemeno che tra utopia e antiutopia dove in un colpo solo si sistemano Voltaire e Karl Marx: “Di fronte a queste utopie della violenza e della non-libertà, che si erano annunciate con grande clamore al servizio dell’umanità, le antiutopie (Huxley, Orwell, ad esempio) di questa fine millennio ci appaiono una sensata premonizione dei disastri a cui avrebbe portato la trionfante e funesta alleanza tra lo spirito della tecnica e i progetti di emancipazione dell’uomo”.

Tante, insomma, le sillabe a comporre il sillabario futuro. Ne segnaliamo, in conclusione, un paio. La prima riguarda il concetto ampio di Europa che Zecchi definisce come “costruita dalla cultura romantica” e “già crollata da tempo”, quindi non oggi, o almeno negli ultimi decenni, anzi: si parla di un moribondo socio-culturale-politico “tenuto in piedi dal Muro di Berlino”. Infine la descrizione dell’ “azione del nuovo eroismo”. Qui più vademecum che sillabario affinchè il pensiero si tramuti misticamente in azione: “Quell’azione non accetta la resa e continua a ricordare che il senso del mondo è nel mito e nell’arte, nella bellezza e nella verità”. Quell’eroismo che Baudelaire definì della “vita quotidiana” che, chiosa Zecchi: “E’ un inesauribile desiderio di creatività e di significato, che può, imprevisto, impadronirsi di chiunque, anche di noi, “con le nostre cravatte e le nostre scarpe di vernice”, mentre camminiamo tra le banalità quotidiane”.

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